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Energie e talenti: risparmio energetico e fonti rinnovabili

Relazione di Francesco Ferrante
(Segreteria nazionale Legambiente – Vicepresidente Kyoto Club)
Seminario estivo di Symbola
Monterubbiano 16-17 luglio 2010

In questi giorni a Monterubbiano discutiamo non solo di quali siano le strade migliori da percorrere per affrontare la crisi, ma anche le condizioni necessarie per costruire un futuro migliore e più desiderabile, una società  più giusta e con più coesione sociale. Perché solo attraverso una radicale innovazione nel nostro modo di produrre e consumare passa la strada per competere nella globalizzazione. L’alternativa è solo quella, sciagurata, e che purtroppo inizia ad affermarsi in alcuni settori della classe dirigente del nostro Paese, di riduzione dei diritti e del livello del benessere in questa parte del mondo per pareggiare verso il basso le condizioni di vita e di lavoro che si realizzano da noi e quelle in essere nei Paesi emergenti. Credo si debba sconfiggere questa ipotesi , praticandone con decisone una tutta diversa. Vogliamo indagare – e in questo utilissimo è il pregevolissimo lavoro di ricerca che Symbola e Unioncamere ci hanno messo a disposizione con “Green Italy” – se già  oggi sono presenti nella società  reale elementi concreti di novità , di movimento, “energie e talenti”, come recita il titolo di questa sessione, che ci permettano di guardare al futuro con speranze basate su fatti.
La green economy, ovviamente, non è solo energia, fonti rinnovabili e risparmio energetico. I “confini della Green Italy” sono già  oggi molto più ampi – la mobilità  sostenibile e gli investimenti che diventano sempre più importanti in questo settore, lo sforzo di innovazione sui materiali e i processi di produzione, la “nuova chimica”, la valorizzazione di quella che Ermete Realacci ha “battezzato” come soft economy italiana con il suo straordinario patrimonio di cultura, paesaggio, natura, bellezza, tradizioni enogastronomiche – ma l’impetuoso passo avanti fatto in questi ultimi anni nel settore energetico, forse meglio che qualsiasi altro esempio può aiutarci a percorrere quella strada per un futuro migliore.
Voglio qui richiamare solo alcuni dei numeri che trovate nella ricerca.
All’inizio degli anni 90 del secolo scorso, agli albori dello sviluppo industriale delle fonti rinnovabili, questo Paese era all’avanguardia sia nell’eolico che nel fotovoltaico. Poi sciaguratamente per colpa di una politica troppo distratta , ma anche di un sistema in cui le nostre grandi imprese sembrano costituzionalmente poco propense a rischiare, abbiamo perso il treno che invece altri Paesi – la Germania, la Spagna, i paesi scandinavi – hanno saputo cogliere con lungimiranza. Per anni siamo rimasti fermi con il risultato che gli altri andavano avanti e competevano molto meglio nell’economia che si globalizzava: la Germania costruiva una filiera industriale che oggi occupa oltre 300.000 persone, le grandi imprese spagnole del fotovoltaico e dell’eolico diventavano tra le più grandi multinazionali del settore, i danesi vendono turbine eoliche in tutto il mondo. Ancora nel 2005 a una Conferenza dell’Onu sulle energie rinnovabili organizzata a Pechino colpiva quanto quei Paesi fossero presenti con i loro prodotti in quello che stava già  diventando il mercato in espansione di gran lunga più importante e la totale assenza del nostro sistema economico-industriale.
Affrontare i cambiamenti climatici diventava sempre più urgente, la necessità  di ridurre le emissioni di CO2 sempre più impellente e un po’ dappertutto nel mondo si affermava l’idea che muovere verso quella straordinaria rivoluzione costituita dalla costruzione di società  “low carbon”, in cui si usciva dall'”era del fossile”, quel fossile su cui tutti, chi più chi meno, nel corso degli ultimi due secoli abbiamo realizzato il nostro benessere, era una straordinaria sfida, ma anche la migliore scommessa per il futuro e per affrontare la crisi. Tanto che il recente rapporto McKinsey racconta come praticabile l’obiettivo – stupefacente fino a pochissimo tempo fa – di un’Europa in cui l’energia elettrica verrebbe prodotta esclusivamente da rinnovabili nel 2050! E l’Agenzia federale tedesca (non qualche manipolo di estremisti ambientalisti), la settimana scorsa nel suo rapporto ha approfondito come l’obiettivo del 100% di rinnovabili al 2050 sia raggiungibile anche facendo addirittura simulazioni ora per ora in modo da respingere eventuali critiche basate sulla presunta aleatorietà  di molte rinnovabili (“non sempre c’è vento”, “il sole di notte non c’è”, ecc.): si può fare.
In Italia non è andata così per troppo tempo e ancora oggi, purtroppo, siamo costretti ad attardarci in polemiche con i “negazionisti” dei cambiamenti climatici che ci fanno perdere solo tempo e risorse preziose e con chi ritiene le rinnovabili tuttalpiù una nicchia anche da difendere ma mia un settore industriale “vero”.
Negli ultimi due anni però finalmente le cose sono cambiate e anche noi abbiamo iniziato a correre. Grazie alla riforma degli incentivi portata a termine nella scorsa legislatura, una riforma “europea”, con meccanismi analoghi a quelli operanti nei paesi citati prima e che oggi qualche miope vorrebbe scardinare (questo e non altro è stato il tentativo del Governo di cancellare con l’articolo 45 della finanziaria l’obbligo di ritiro dei certificati verdi da parte del GSE), in Italia si è finalmente iniziato a montare pannelli e a realizzare parchi eolici.
I risultati sono importanti: nel 2009 un chilowattora su quattro di energia elettrica prodotta in Italia proveniva da fonti rinnovabili, l’eolico ha contribuito con oltre 6,6 TWh, ad oggi abbiamo istallato oltre 1300 MW di pannelli solari fotovoltaici. E se è vero come ci hanno rivelato i recenti dati dell’Istat che il 10,7% dei consumi totali di energia vengono da rinnovabili, l’obiettivo europeo del 17% al 2020 non appare più un miraggio ma un target raggiungibile e concreto.
Certo, complice sgradita di questi exploit percentuali è stata la crisi economica che ha ridotto i consumi totali ed è auspicabile che per il futuro cresca molto di più il numeratore, e che invece il denominatore di questa frazione diminuisca piuttosto per virtuose pratiche di efficienza energetica che non per “riduzione da crisi”. Ma il dato, che emerge dal Rapporto “Comuni rinnovabili” di Legambiente, per il quale in oltre 7000 degli 8000 Comuni italiani è ormai presente un impianto che produce energia da fonte rinnovabile, è un fatto incontrovertibile.
E’ evidente che non possiamo fermarci , ma che anzi dobbiamo accelerare. Il Piano per le rinnovabili che il Governo in questi giorni si accinge a mandare a Bruxelles quasi in tempo con le indicazioni europee (avremmo dovuto farlo entro il 30 giugno, ma per le abitudini italiane qualche settimana di ritardo può essere considerata un successo) traccia una strada e ha il merito, finalmente, di scrivere numeri appunto “europei”. Sconta forse ancora troppe prudenze, ad esempio sul fotovoltaico e sul biogas, e dovremo lavorare nei prossimi mesi per correggerlo in quei punti, ma ciò che è necessario è che nella prossima riforma dei meccanismi di incentivazione non si facciano passi indietro, ma anzi si realizzi quella connessione e programmazione fra risorse da mettere in campo e obiettivi da raggiungere ancora assente.
Non si tratta qui di difendere livelli di incentivi alti, anzi va salutato positivamente il nuovo conto energia sul fotovoltaico – finalmente approvato settimana scorsa con sei mesi di ritardo! –  che prevede una riduzione graduale – sino al 30% – degli stessi, (più forte per quelli a terra e più contenuta per quelli sui tetti) ma piuttosto di smontare un argomento cavalcato con troppa improvvisazione da molti, e con qualche peloso interesse da alcuni, per cui l’ammontare complessivo degli incentivi per le fonti rinnovabili sarebbe insostenibile e andrebbe ridotto. Basti pensare che il famigerato articolo 45 si proponeva di ridurre di circa 500 milioni la bolletta elettrica pagata da cittadini e imprese, mentre in Germania con lo stesso meccanismo sono destinati da anni alle fonti rinnovabili oltre 5 miliardi di euro (10 volte tanto!) e in quel paese non esistono né cittadini , né imprese che si lamentino visto che sono ben consci del volano costituito da quel settore per l’intero sistema. Sarebbero ben altri i costi impropri e improduttivi che pesano sulle nostre bollette che andrebbero rapidamente cancellati: circa 1 miliardo all’anno ci costa il mancato collegamento tra Sicilia e Calabria (soldi che gentilmente regaliamo a chi ha impianti di produzione di energia elettrica nell’isola); oltre 400 milioni gli oneri per il nucleare che da decenni paghiamo per quella disgraziata avventura che oggi qualcuno vorrebbe persino riproporre; più di 100 milioni per una “tassa occulta” nascosta nelle pieghe degli oneri di sistema; e che dire dell’IVA che tutti noi paghiamo, regalandola alle casse dello Stato senza alcun ritorno, su quelle voci della bolletta?
Ciò che serve quindi al settore delle rinnovabili è quindi certezza degli incentivi che non vengano continuamente messi in discussione – ed è per questo da respingere l’ipotesi di spostare il peso dalle bollette alla fiscalità  generale, una scelta che metterebbe alla mercè del Ministro del Tesoro di turno e della sua inevitabile fame di risorse ad ogni finanziaria gli incentivi stessi – e che anzi prevedano una curva di riferimento almeno sino al 2020, magari prevedendo di estendere anche nel  nostro Paese il meccanismo  feed in, attualmente previsto solo per il  fotovoltaico, per tutte le fonti rinnovabili, ovviamente con coefficienti moltiplicativi diversi a seconda delle tecnologie. Inoltre servono regole più certe per le autorizzazioni, che oggi sono il vero freno a uno sviluppo più forte degli impianti. Da questo punto di vista va salutata certamente con favore la recente approvazione, che pur arriva con troppo ritardo, da parte del Governo e della Conferenza unificata delle linee guida sulle autorizzazioni. Ora sta alle Regioni recepirle e non frapporre più ostacoli, sorvegliando allo stesso tempo che le procedure siano trasparenti e impediscano infiltrazioni criminali , che come è noto dalle cronache di questi giorni, provano a “inquinare” anche questo settore pulito come hanno fatto in altri campi.
Eolico ovunque ci sia vento a sufficienza facendo attenzione al suo inserimento nel delicato paesaggio italiano; fotovoltaico sui tetti, a partire da quelli dei capannoni, ma anche a terra in zone industriali e con molta cautela e attenzione alle primarie esigenze dell’agricoltura, nei terreni agricoli; promozione del nuovo solare a concentrazione e termodinamico; diffusione del solare termico (per il riscaldamento dell’acqua) ad oggi davvero troppo poco usato nel “paese del sole”; biomasse da filiera corta e ampio ricorso al biogas (anche da inserire in rete): questi gli obiettivi principali da perseguire nei prossimi mesi e anni.
L’esperienza di questi due anni, tutto sommato positivi, ci dice inoltre che è proprio costruendo le condizioni per realizzare una filiera industriale degna di questo nome che si promuove la ricerca. Sono finalmente oggi numerose le Università , o gli spin off, gli enti pubblici e le aziende private che si stanno muovendo e investendo in questa direzione. E particolarmente interessante è lo sviluppo del solare termodinamico che vede anche protagonisti italiani in quella che si prospetta essere una promettente corsa dei prossimi anni.
Le fonti rinnovabili per loro natura sono “diffuse” e necessitano di pensare un sistema basato sulla generazione distribuita e le smart grid (su cui Terna deve investire di più). Nessun senso ha paragonare, in termini di potenza e di energia prodotta, un campo fotovoltaico a una grande centrale termoelettrica, ma piuttosto immaginare una società  dove i cittadini si autoproducono l’energia, gli agricoltori trovano un sostegno reale ai propri redditi così grami, gli artigiani e le piccole e medie imprese possano trovare terreno fertile sui basare il proprio sviluppo è la condizione necessaria, anche se ancora non sufficiente, per avvicinarsi allo stesso tempo a una società  che usi di meno i fossili e che sia più “democratica”-
Non è però solo contando sullo sviluppo delle rinnovabili che saremmo in grado di affrontare cambiamenti climatici, creare le condizioni per società  a basso tenore di carbonio e vincere la sfida dell’innovazione. Se non operiamo al contempo con decisione e radicalità  anche sul fronte dell’efficienza energetica la montagna sarà  sempre troppo alta da scalare.
E, ancora partendo dai dati, dobbiamo sapere che nell’ultimo decennio mentre gli altri Paesi hanno fatto sforzi importanti in questo settore, noi siamo rimasti pressoché fermi: fatta 100 l’intensità  energetica nel 1997 dell’Italia e degli altri Paesi europei, osserviamo che se in Italia in 10 anni si è ridotta solo di 3 punti percentuali, nell’Europa a 15 è calata di 7, con alcuni balzi all’ingiù spettacolari quali quello della Danimarca (-15) e del Regno Unito (-13). In valori assoluti: in Italia nel 1997 ci volevano 146,96 chilogrammi equivalenti di petrolio per produrre un valore di 1000 euro, e in questa speciale classifica eravamo tra i migliori, superati solo dalla risparmiosa Danimarca a cui servivano solo 132,87 Kep/1000 euro,  10 anni dopo, mentre nel resto d’Europa ma anche negli Stati Uniti (lì si è passati da 229,44 Kep a 189,71 con una riduzione di oltre il 17%, certo favorita dagli alti livelli di sprechi da cui partivano) si scendeva rapidamente, da noi ce ne volevano ancora 142,78, praticamente la stessa quantità  che nel secolo scorso.  
Allora risulta davvero incomprensibile l’ostinato rifiuto del Governo di prorogare quella misura, il 55% di “sconto fiscale” nelle ristrutturazioni edilizie volte al risparmio energetico, che nei primi due anni è stata utilizzata da oltre 600.000 cittadini, ha messo in moto un giro di affari di oltre 12 miliardi di euro senza pesare  sul bilancio dello Stato (perché ha significato anche tanta emersione dal nero), ha rappresentato una boccata d’aria (pulita) per un settore, quello dell’edilizia che più di altri viene colpito dalla crisi, e ha permesso di risparmiare la quantità  di energia elettrica prodotta da una grande centrale termoelettrica.
La strada è invece quella di incentivare, nei consumi domestici e in quelli industriali, nell’edilizia e nel trasporto tutte quelle forme più efficienti che sono anche le più innovative e in grado di competere anche a livello internazionale.
Oggi passeremo in rassegna molte di queste best practices, nelle rinnovabili e nell’efficienza, e spero che si possa dare un ulteriore contributo utile a quella ricerca di futuro possibile e desiderabile che al centro di questa nostri tre giorni marchigiana.
Tutto questo si può fare a patto però che si affronti anche  il capitolo forse più importante per la costruzione di una nuova economia, di un futuro migliore: il  fisco. E’ necessario dire che per tutta la green economy, e per il settore dell’efficienza e delle rinnovabili, per accompagnarci nell’uscita dal “era del fossile”, ma anche per costruire una società  più giusta, noi abbiamo bisogno di una rivoluzione anche nel modo in cui intendiamo il fisco. Non si tratta di piccoli aggiustamenti o urlare “meno tasse per tutti” e confondere il mondo con promesse mirabolanti quanto pericolose,  quanto piuttosto radicalmente spostare il peso fiscale, che oggi grava tutto su imprese e lavoro, e colpire i consumi di materie e risorse da una parte e le rendite finanziarie dall’altra. Non può essere questa la sede per affrontare questo punto in maniera approfondita ma è certamente questa la strada che mi auguro sapremo imboccare con coraggio e fiducia
 

Le linee guida del Pd sull’acqua

Acqua pubblica e gestione del servizio idrico integrato
Il Partito democratico si è opposto alle norme fatte approvare dal governo a colpi di fiducia e che spingono verso una privatizzazione forzata togliendo agli enti locali la possibilità  di decidere e portando al rischio di monopoli privati nelle mani di poche grandi aziende spesso del tutto estranee ai contesti territoriali in cui viene svolto il servizio; norme presentate sotto il titolo di obblighi comunitari quando in realtà  non c’è alcun atto comunitario o sentenza europea che imponga di forzare l’ingresso dei privati nel servizio idrico integrato.
Il Pd è contro il disegno di privatizzazione forzata imposto dal governo ed è vicino a quanti lo contrastano seguendo le diverse vie referendarie. Combattere, anche con il referendum contro la privatizzazione forzata dell’acqua è una battaglia fondata ma lo strumento referendario da solo non basta, è inadeguato sia per la scarsa efficacia dimostrata negli ultimi anni (24 referendum persi su 24 negli ultimi 15 anni per mancato quorum) sia perché sua natura abroga leggi senza definirne di nuove e più efficaci.
Il Pd vuole formulare una proposta complessiva di gestione del servizio idrico integrato con un percorso di costruzione di un progetto di legge partecipato, che coinvolga amministratori locali e cittadini e che metta al centro la risorsa acqua per sua natura pubblica, da rendere disponibile a tutti e da preservare per le future generazioni.
L’acqua, infatti, è un bene comune dell’umanità , un bene essenziale e insostituibile per la vita. L’acqua non può che essere un bene pubblico e deve essere garantita a tutti nel rispetto dei vincoli ambientali e al massimo livello di qualità , secondo principi di equità  e solidarietà  e con criteri di sostenibilità  per preservarne la qualità  e la disponibilità  per le future generazioni.
L’acqua è quindi necessariamente un bene pubblico e lo sono anche le infrastrutture del servizio idrico che vanno gestite con criteri di efficienza ed economicità  secondo logiche industriali in grado di assicurare costi sostenibili e qualità  del servizio. 
L’acqua è un bene scarso e va preservata attraverso la cura del territorio, la manutenzione dei bacini idrografici, la tutela dei corpi idrici e delle aree di salvaguardia.
L’acqua è un bene fisicamente limitato e come tale va prelevata e gestita secondo criteri efficienti, in particolare assicurando la migliore manutenzione delle reti di distribuzione, combattendo ogni forma di spreco e governando l’uso della risorsa e la sua assegnazione per i diversi usi, potabili, agricoli e industriali, garantendo l’obiettivo della sostenibilità  attraverso incentivi al risparmio idrico e il rispetto di standard di qualità .
Per il Partito democratico sono obiettivi irrinunciabili la tutela delle acque, l’accessibilità  per tutti, un uso razionale della risorsa che operi dal lato dell’offerta e non si limiti a rincorrere la domanda, l’equità  delle tariffe e la massima qualità  ed efficienza del servizio. Irrinunciabile anche l’obiettivo della copertura totale del servizio di depurazione sull’intero territorio nazionale e di una gestione sostenibile della risorsa acqua, con la riduzione quindi di dispersioni, sprechi e usi inappropriati.
Per raggiungere questi obiettivi:
         una forte regolazione pubblica, attuata da una autorità  di regolazione nazionale di cui siano compartecipi Stato e regioni, che consenta di definire standard di servizio, monitorare i risultati, applicare eventuali sanzioni e quindi incentivi qualità , efficienza e risparmio per migliorare il servizio e garantire al tempo stesso equità  e uso sostenibile della risorsa acqua
         ruolo fondamentale delle regioni e degli enti locali nelle scelte di affidamento del servizio idrico integrato nel pieno rispetto dei principi generali, degli standard di qualità , dei livelli minimi essenziali fissati
         gestione industriale del servizio idrico integrato (ossia dell’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue) anche per realizzare economie di scala, assicurare qualità  omogenea e controllabile dei servizi, garantire sicurezza degli approvvigionamenti idrici ed efficienza nella depurazione
         un quadro normativo chiaro e stabile che metta fine alla continua incertezza prodotta dai ripetuti interventi del centrodestra che riparta affidando alle regioni il compito di organizzare il servizio idrico integrato sulla base di ambiti territoriali ottimali definiti secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità  nel rispetto dell’unità  dei bacini idrografici, dell’unitarietà  della gestione e quindi del superamento delle frammentazioni, dell’adeguatezza delle dimensioni gestionali, della riduzione delle sperequazioni tra ambiti limitrofi
         tariffa come corrispettivo del servizio idrico integrato, che preveda una tariffa sociale per dare agevolazioni a determinate fasce di reddito e ai nuclei familiari numerosi e una tariffa che incentivi il risparmio idrico e scoraggi quindi i consumi elevati
         meccanismi che vincolino alla realizzazione degli investimenti necessari per il miglioramento del servizio, stimati in almeno 60 miliardi di euro con un impegno aggiuntivo per garantire lo stesso livello di servizio in ogni area del paese
Iniziamo da oggi un percorso di costruzione di un progetto di legge che si articola intorno a queste linee guida e che vogliamo elaborare con i nostri amministratori locali ed eletti, territorio per territorio, e con il sostegno dei cittadini che vorranno firmare la petizione a sostegno della nostra proposta.
 

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Dossier: trivellazioni petrolio off-shore

CON BERLUSCONI PIU’ TRIVELLE NEI MARI ITALIANI.
“Escalation impressionante di attività  petrolifere in 7 regioni italiane”.

In un futuro non troppo lontano i mari che bagnano il nostro Paese potrebbero assumere una fisionomia del tutto nuova, andando a somigliare sempre più al Mar del Nord, costellato di piattaforme petrolifere.

Questo è la scenario che realisticamente si prospetta alla luce delle attività  di ricerca e estrazione petrolifera offshore che l’esecutivo Berlusconi ha autorizzato nei suoi anni di governo.

In particolare il mar Adriatico pare essere avviato ad una pesantissima petrolizzazione: è notizia di pochi settimane fa che il Tar di Lecce ha ordinato la sospensiva del decreto ministeriale su lavori preliminari per la ricerca di idrocarburi nel mare pugliese. La Regione Puglia, insieme col Comune di Fasano (Brindisi), si era associata al ricorso presentato dal Comune di Ostuni (Brindisi) contro un provvedimento del ministero dell’Ambiente sulla compatibilità  ambientale di lavori per l’estrazione di idrocarburi in favore della società  britannica Northern Petroleum.

l Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare aveva emesso pronuncia positiva di compatibilità  ambientale nei confronti della multinazionale inglese all’inizio del 2009  ma l’opinione pubblica ne era venuta a conoscenza solo dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale N. 267 del 16 Novembre 2009. La Northern Petroleum era stata quindi autorizzata a svolgere sondaggi in mare per la ricerca di petrolio a 25 km a est di Monopoli, a sud di Bari.

Il numero delle decisioni di compatibilità  ambientale dei lavori di estrazione di petrolio come dicevamo ha avuto un’escalation impressionante negli ultimi anni: le attività  di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare sottoposti alle procedure di VIA o alla verifica di assoggettabilità  a VIA con i governi Berlusconi che hanno avuto esito positivo sono ben 16. Nel frattempo 10 procedure di VIA e 3 verifiche di assoggettabilità  a VIA sono in corso.

Proprio guardando le verifiche di assoggettabilità  a VIA concluse che, negli ultimi due anni, ovvero da quando è in carica  il Governo Berlusconi, si rimane sbalorditi dalla quantità  di progetti di ricerca di idrocarburi offshore che interessano i nostri mari. In questi casi, e sono ben nove, non è stato nemmeno necessario appunto attivare la procedura di VIA, perché la verifica di assoggettabilità  da il via libera senza la necessità  di passare per la Valutazione di impatto ambientale.

A far la parte del leone sono le aziende petrolifere straniere, Norther Petroleum, Petroceltic e la Puma Petroleum. Il mare più battuto è l’Adriatico ma non sono esclusi altri tratti del Mediterraneo: nel mare incantevole della Sardegna, al largo delle spiagge del Sinis, in un angolo di paradiso che dall’isola di Mal di Ventre corre fino alle coste di Bosa, si stanno per mettere in moto le attrezzature della Puma petroleum di alta tecnologia a caccia di gas e petrolio.

Sempre in Sardegna la Saras ha invece un permesso di prospezione nel golfo di Oristano e nelle acqua a sud dell’isola.

Occorre ricordare che la valutazione di impatto ambientale (VIA) è una procedura amministrativa strumento di supporto per l’autorità  decisionale finalizzato a individuare, descrivere e valutare gli effetti dell’attuazione o meno di un determinato progetto. Con “impatto ambientale” si intende l’insieme degli effetti causati da un evento, un’azione o un comportamento sull’ambiente nel suo complesso .L’impatto ambientale – da non confondere quindi con inquinamento o degrado – mostra quali effetti può produrre una modifica all’ambiente circostante inteso in senso lato (sociale, economico ecc.). Si cerca cioè di prevedere quali saranno i costi ed i benefici nel caso in cui si verifichino delle modifiche di uno stato di fatto. Una ricerca di idrocarburi inizia sostanzialmente da studi geologici seguiti da indagini geofisiche per individuare, su aree vaste, particolari situazioni nel sottosuolo (trappole), che possono risultare mineralizzate ad olio, a gas o ad olio e gas. Le indagini geofisiche si possono fare, oltre che in regime di permesso di prospezione, anche liberamente, invece la ricerca di nuovi giacimenti, comprendente indagini geofisiche ma soprattutto perforazioni di ricerca, si può fare solo avendo ottenuto un permesso di ricerca. La prospezione geofisica è una tecnica di indagine non distruttiva del sottosuolo, che consiste nella misurazione tramite apparecchi di alcune proprietà  fisiche del terreno che possono rivelarne la struttura, così come la presenza di oggetti sepolti.  

La  produzione petrolifera italiana è attorno ai 130.000 barili al giorno, mentre quella gassifera è di circa 17.5 miliardi di metri cubi. Il picco di produzione petrolifera in Italia è stato raggiunto nel 1997, e la velocità  di esaurimento corrente è del 3,1%. La produzione nazionale rappresenta circa il 7% del nostro consumo totale di petrolio, il rimanente 93% è pertanto importato dall’estero; la produzione italiana, infine, corrisponde all’1% della produzione mondiale, con le riserve rimanenti, circa 1 miliardo di barili, che rappresentano lo 0.1% delle riserve mondiali di greggio.

Le procedure di VIA in corso, che hanno tutte  per oggetto il permesso di ricerca, hanno,in sette casi su dieci, come azienda proponente, la Petroceltic Elsa, una  controllata al 100% dalla società  irlandese Petroceltic International PLC, e si concentrano tutte nel basso adriatico, di fronte alle coste abruzzesi e pugliesi, mentre le altre aziende interessate sono la Northern petroleum, con ricerche  nelle acque siciliane, Edison (mare di fronte all’Abruzzo e il Molise) e Consul Service(di fronte alle coste della Basilicata).
Tra le sei procedure di Via concluse tre sono di fronte alle coste dell’Emilia Romagna e contemplano  la concessione di coltivazione, ovvero la vera e propria estrazione di petrolio.
Sempre la Northern Petroleum, molto interessata invece al petrolio nei fondali antistanti la Puglia, ha in quella zona ottenuto altri tre permessi di ricerca.

Un permesso di ricerca può riguardare un’area molto vasta: ad esempio è inerente ad un’area marina di ben  127 kmq., di fronte alle coste abruzzesi quello da cui Petroceltic conta di estrarre 80 milioni di barili di greggio in 3 anni (2009-2001).

Va premesso che quando si parla di petrolio bisogna pensare alla qualità  dello stesso, il petrolio del basso Adriatico è di pessima qualità  perché bituminoso con un alto grado di idrocarburi pesanti e ricco di zolfo (praticamente simile a quello albanese che non ha portato nessuna ricchezza sul loro territorio). Il prodotto di scarto più pericoloso è l’idrogeno solforato (H2S) dagli effetti letali sulla salute umana anche a piccole dosi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità  raccomanda di non superare 0.005 parti per milione (ppm), mentre in Italia il limite massimo previsto dalla legge è pari a 30 ppm : ben 6000 volte di più. In mare addirittura non ci sono limiti in Italia.  Le attività  di perforazione e produzione di petrolio dal fondo marino contribuiscono per il 2% all’inquinamento marino. Questo 2% va sommato al 12% dovuto agli incidenti nel trasporto marittimo, si aggiunge il 33% per operazioni sulle navi relative a carico e scarico, bunkeraggio, lavaggio, scarichi di acque di sentina o perdite sistematiche, che porta al 45% l’apporto complessivo di inquinamento dovuto a perdita dalle navi. Un consistente apporto di inquinamento da petrolio, stimato al 37%, è quello che proviene da scarichi urbani e industriali, sistematici o accidentali, e perdite da raffinerie, oleodotti, depositi. Inoltre le ricadute atmosferiche di idrocarburi evaporati o parzialmente incombusti danno un apporto del 9%, sorgenti sottomarine rilasciano per trasudamento naturale un apporto del 7%.Per potere trivellare nel mare, ed altrove, le compagnie petrolifere hanno bisogno di speciali “fluidi e fanghi perforanti”per portare in superficie i detriti perforati (cutting). Quali sono le caratteristiche di tali materiali? Questi fanghi sono tossici e difficili da smaltire. Lasciano, infatti, tracce di cadmio, cromo, bario, arsenico, mercurio, piombo, zinco e rame. Questi elementi pesanti sono nocivi e si bioaccumulano nei corpi del pesce che mangiamo. Date le condizioni di lavoro in mare, con condizioni spesso variabili e difficili, è lecito porsi alcune domande: quanto materiale si disperde? Chi controlla che il suddetto fango, costoso da smaltire, raccolto in vasconi appositi, non strabordi in mare? Diversi studi redatti da agenzie governative dimostrano i livelli di mercurio è molto alto nei pesci pescati vicino le piattaforme petrolifere. L’estrazione del petrolio e la sua raffinazione comportano, inoltre, un notevole dispendio di acqua, che sarà  prelevata dall’acquedotto pubblico, già  perennemente carente in estate. Queste acque contaminate dallo zolfo e metalli pesanti saranno poi reimmesse nel terreno con un rischio gravissimo di contaminazione delle falde. A tutto questo va aggiunto che con le perforazioni c’è il rischio subsidenza, che è l’abbassamento del terreno a causa delle estrazioni di idrocarburi. Questo fenomeno è qualche volta accompagnato da micro terremoti e dissesti geologici, pericolosi in zone in cui la maggior parte delle abitazioni non sono antisismiche. Il nostro paese, a causa dell’utilizzo delle fonti fossili come gas e petrolio, ha sforato di gran lunga le proprie quote di emissioni. Attualmente noi italiani paghiamo diversi milioni di euro al giorno per lo sforamento delle emissioni di Anidride Carbonica rispetto all’obiettivo previsto dal Protocollo di Kyoto. Invece di pensare ad un aumento dell’offerta e del consumo si dovrebbe pensare di attuare una logica di risparmio energetici e delle risorse. Se si consentirà  l’inserimento di piattaforme petrolifere sul mare pugliese, si avvallerà  l’ennesima operazione che avvantaggia e arricchisce poche lobby a scapito dell’impoverimento collettivo. Altro aspetto è il rischio incidenti, paragrafo spesso omesso in molti progetti. Si individuano tre tipologie di possibili incidenti:- Blow-out di gas durante la perforazione; -Blow-out con fuoriuscita di petrolio incontrollata; -Collisioni di Navi con la Piattaforma. Il rischio subsidenza del terreno,  è così noto nel nord dell’Adriatico da aver portato alla sospensione delle attività  di estrazione per lunghissimi periodi.

l Mediterraneo è già  un’immensa pattumiera marina. E’, difatti, il mare più inquinato da idrocarburi, essendo uno dei mari più solcati da petroliere che lavano le cisterne al largo, sporcando le nostre spiagge a svantaggio del turismo locale. Si spera che il governo nazionale e locale tengano conto non solo degli aspetti economici, che sono marginali considerata la bassa qualità  del petrolio sabbioso ad alto contenuto di zolfo e la difficoltà  di estrazione off-shore, ma anche delle esternalità  negative provocate da questi progetti, ossia il costo che la collettività  dovrà  sostenere per ripagare i danni causati alla salute dell’uomo,  all’agricoltura, al turismo, alla pesca, ecc.

Costi e benefici: per un Paese come L’Italia per il quale il mare rappresenta una delle attrattive turistiche fondamentali l’installazione di numerose piattaforme petrolifere, con il conseguente impatto paesaggistico e le ricadute in fatto di inquinamento da idrocarburi è logico considerare come i benefici per la collettività , per il comparto dell’industria turistica siano assolutamente nulli, mentre sarebbero altissimi i costi.

REGIONE
INTERVENTO
LOCALITA’
AZIENDA
EMILIA ROMAGNA COLTIVAZIONE ADRIATICO – RIMINI ENI
EMILIA ROMAGNA COLTIVAZIONE ADRIATICO – RAVENNA ENI
MARCHE COLTIVAZIONE ADRIATICO – ANCONA ENI
MARCHE COLTIVAZIONE ADRIATICO – PESARO ENI
ABRUZZO POZZO ESPLORATIVO ADRIATICO – FRANCAVILLA AL MARE VEGA
MOLISE POZZO ESPLORATIVO ADRIATICO -ISERNIA- CASTEL DEL GIUDICE ENI
PUGLIA PERMESSO DI RICERCA ADRIATICO – FOGGIA PETROCELTIC
PUGLIA PERMESSO DI RICERCA ADRIATICO NORTHERN PETROLEUM
CALABRIA PERMESSO DI RICERCA MAR IONIO – CROTONE PUMA PETR.
SICILIA PERMESSO DI RICERCA LARGO ISOLA DI LAMPEDUSA PUMA PETR.
SICILIA POZZO ESPLORATIVO CANALE DI SICILIA – LICATA ENI
SICILIA PERMESSO DI RICERCA CANALE DI SICILIA – RAGUSA PEAL PETR.
SICILIA PERMESSO DI RICERCA CANALE DI SICILIA – POZZALLO- RAGUSA PEAL PETR.
SARDEGNA PERMESSO DI RICERCA MAR DI SARDEGNA – CAPO MANNU (OR) PUMA PETR.
SARDEGNA PERMESSO DI PROSPEZIONE MAR DI SARDEGNA – CAPO DI SPARTIVENTO SARAS
SARDEGNA PERMESSO DI PROSPEZIONE MAR DI SARDEGNA – GOLFO ORISTANO SARAS

 

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