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No Tav, si Tav: le due religioni

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Prendete Stefano Esposito, oggi senatore Pd che sul sì al Tav Torino-Lione “senza se e senza ma” ha costruito la sua carriera politica. E mettetegli accanto Alberto Perino, leader storico di quel “popolo” no-tav che dell’opposizione alla nuova linea ferroviaria ha fatto un motivo di identità  comunitaria, una vera religione.

Appartengono a due mondi opposti e incomunicabili: uno invita su twitter i poliziotti a usare di più i manganelli contro i manifestanti che vorrebbero violare la “zona rossa” del cantiere, l’altro paragona la lotta no-tav alla guerra di resistenza contro i nazifascisti che settant’anni fa vide la Val di Susa protagonista. Eppure Esposito e Perino hanno un tratto in comune: entrambi guardano a quest’opera come ad un feticcio, un simbolo assoluto del bene (per Esposito) o del male (per Perino), e tutti e due se ne infischiano di fermarsi sul merito della questione.

Per evitare equivoci, accuse di “equilibrismo”, chiariamo subito che per noi il Tav Torino-Lione è un’opera inutile: l’Italia ha un bisogno urgentissimo di far viaggiare le merci di più sui treni e di meno sui Tir, ma se oggi questo non sta succedendo – se ancora meno che altrove succede attraverso la frontiera italo-francese – non è per mancanza di treni veloci ma per mancanza di un’opera ancora più grande che si chiama volontà  politica. Per dirne una: mentre ci si accinge a spendere svariati miliardi per costruire la linea ferroviaria ad alta capacità  da Torino a Lione, a pochi chilometri da dove sorgerà  la mega-galleria si sta scavando un altro tunnel, questa volta autostradale, che raddoppierà  o quasi la quantità  di merci trasportate sui Tir.

Il Tav Torino-Lione non serve né al Piemonte né all’Italia, invece è utilissimo come caso emblematico di un Paese incapace non solo di decidere del suo futuro, ma ormai persino di discuterne su basi razionali. Chi è contro e chi è a favore lo è quasi sempre per principio, come se si stesse ragionando per l’appunto di sacri princìpi e non del rapporto tra costi e benefici – economici, ambientali, sociali – di un buco dentro una montagna. Lo scontro dura ormai da oltre un decennio, tutti quelli – su entrambi i fronti – che hanno provato a portarlo dentro i confini di un normale dibattito pubblico, nel quale contano più i numeri degli atti di fede, hanno dovuto arrendersi alla guerra di religione combattuta dagli Esposito e dai Perino.

Nel frattempo, i due eserciti si sono progressivamente incrudeliti, e mentre dalla parte dei no-tav i linguaggi e anche i comportamenti si fanno ogni giorno più cupi e feroci, talvolta apertamente violenti, sul fronte opposto prende piede l’idea – per qualcuno, sembra incredibile, una buona idea – di realizzare un’opera del genere, i cui lavori occuperanno i prossimi dieci anni, “manu militari”.

Soluzioni? A questo punto è difficile intravederne a breve. Ma un fatto è sicuro: fino a quando le truppe dei favorevoli e dei contrari al Tav Torino-Lione si faranno guidare dagli attuali generali, la guerra continuerà  indisturbata perché a loro sta benissimo così.

Presidente Napolitano, per cortesia rientri nei limiti

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Nei sette anni abbondanti del suo doppio mandato, Giorgio Napolitano ha spesso supplito alle mancanze – di responsabilità , di buonsenso, di realismo – della politica.

Questo lo ha reso molto popolare tra gli italiani e molto apprezzato nelle cancellerie di tutto il mondo. Questo, però, lo ha spinto anche ad allargare ogni giorno di più – davvero si può dire: ogni giorno – i confini formali e sostanziali del suo agire istituzionale: oggi noi siamo l’unico caso al mondo di una democrazia compiuta nella quale un sistema di governo parlamentare convive con un presidenzialismo di fatto, l’unico in cui un Presidente della Repubblica scelto dal Parlamento, che dovrebbe svolgere funzioni di “arbitro” e di garante, è protagonista attivo del gioco politico come fosse un presidente eletto dal popolo, meglio da una “parte” del popolo. Così, mentre il Parlamento discute su come dare più efficacia alla nostra architettura istituzionale, mentre discute tra l’altro se confermare l’attuale sistema parlamentare o trasformarlo nel senso di un presidenzialismo più o meno marcato, la Costituzione materiale sembra già  segnata da un’impronta largamente presidenzialista, peraltro in assenza dei contrappesi indispensabili per l’equilibrio di un simile modello.

Il discorso tenuto giovedì scorso alla “cerimonia del ventaglio” è l’ultimo episodio, uno dei più vistosi, di questo progressivo e apparentemente inarrestabile scivolamento di senso del copione presidenziale di Napolitano. Nell’occasione, il Presidente ha detto che Alfano non deve dimettersi perché per i ministri non esiste “responsabilità  oggettiva”, ha ammonito il Pd a non coltivare progetti di altre maggioranze da quella attuale e il Pdl a non confondere il destino giudiziario di Berlusconi con quello politico del governo, ha sostenuto che la caduta di Letta esporrebbe l’Italia a danni irrecuperabili. Insomma, ha parlato da “capitano” di una delle squadre in campo nell’attuale scena politica – la squadra delle larghe intese – molto più che da arbitro.

C’è poi, noi crediamo, un problema ulteriore. Quanto più la presidenza Napolitano acquista una dimensione politica, tanto più essa fa emergere il Napolitano politico. Come ha scritto Michele Serra, la tradizione da cui proviene il Capo dello Stato – cioè la cosiddetta “destra” comunista – era specializzata nell’invocare il “senso di responsabilità ” come freno ad “ogni impennata etica, ogni accelerazione sociale, ogni eccessiva movimentazione del paesaggio politico”. Questa preoccupazione “conservatrice” è chiaramente percepibile nelle scelte e nel discorso di Napolitano. L’idea che i problemi dell’Italia si affrontino meglio mettendo la sordina al confronto politico, riducendo al minimo i conflitti tra visioni e proposte, perseguendo la mai tanto evocata “pacificazione” per superare vent’anni di “guerra fredda” nel nome di Berlusconi, è naturalmente un’idea legittima. E però è un’idea, per l’appunto, tipicamente conservatrice, cui se ne oppone un’altra per la quale a un Paese mal ridotto come il nostro servirebbero piuttosto politiche di radicale cambiamento, di discontinuità  con il passato, berlusconiano e non. Politiche che inevitabilmente impongono scelte radicali, le quali a loro volta possono arrivare solo come risultato di conflitti chiari e netti.

Per queste ragioni di diritto e di fatto, sarebbe bello se Giorgio Napolitano utilizzasse l’ultima parte del suo magistero presidenziale per ritornare nei limiti di un ruolo meno schierato e più “terzo”. Sarebbe un altro buon servizio che egli rende all’Italia, una specie di prova del nove della sua responsabilità , del suo buonsenso, del suo realismo.

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Lavoro e giovani: la strada non sono sussidi a perdere

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C’è una verità  che vede convergere, in Italia e in Europa, tutte le analisi e tutti i giudizi sulla crisi economica: l’aspetto più drammatico del tunnel recessivo imboccato a inizio 2008 riguarda il lavoro, e in particolare la mancanza di lavoro per i giovani.

Da qui anche le decisioni dell’ultimo vertice europeo, centrate sull’obiettivo di destinare alcuni miliardi di euro per un piano europeo rivolto ai cosiddetti “neet” (“not in education, employment or training”): la massa crescente di giovani che non studiano, non lavorano, non si formano. Un piano in continuità  con il progetto del governo italiano, preparato dal ministro Giovannini, che stanzia fondi per le assunzioni di giovani indicando priorità  “geografiche” (precedenza al sud) e per “tipologia di soggetti” (svantaggiati, con persone a carico ecc.).

Purtroppo, sia l’iniziativa europea che quella italiana denunciano uno stesso limite: la mancanza di visione, di scelte capaci di indirizzare gli investimenti, di impegnare le limitate risorse a disposizione nelle direzioni più convenienti e strategiche. Ancora una volta, così pare, prevale l’illusione che qualche sgravio fiscale “a pioggia” (sempre utile, per carità , in un Paese come il nostro segnato da una pressione tributaria elevatissima) o qualche ennesima “acrobazia” sulle forme contrattuali bastino a rispondere al dramma della disoccupazione in genere e di quella giovanile in particolare.

Ciò che servirebbe è altro, è un’idea di futuro su cui costruire politiche economiche e industriali di respiro, utili certo ad aprire oggi sbocchi occupazionali per i giovani chi non trovano lavoro e nemmeno più lo cercano ma capaci, anche, di disegnare una prospettiva credibile per l’Europa di domani. Questa idea non va inventata: c’è già , abbondantemente presente in decine di documenti ufficiali dell’Unione europea. E’ l’idea di una società  “low carbon”, è l’idea di una “green economy” intesa non come settore di nicchia ma come l’unico terreno realistico su cui l’Europa – in un mondo e in un’economia globale sempre più multipolari – potrà  giocare anche in futuro da “player” protagonista.

La traduzione italiana di questo indirizzo è anch’essa ben chiara a chi voglia vedere: passa per la scelta di valorizzare quei “talenti” – la creatività , la bellezza, la cultura, il paesaggio, l’impresa sociale – di cui disponiamo più largamente di tanti altri e che rappresentano la sola vera e buona carta che abbiamo da giocare per uscire presto e bene dalla crisi e fermare il nostro declino. Come applicare tale ricetta alle politiche per il lavoro dei giovani? Una proposta concreta e convincente viene da Ilaria Catastini, imprenditrice romana con la quale abbiamo promosso il nuovo movimento politico “Green Italia”; per Catastini, sarebbe bene che le risorse disponibili non vengano disperse in mille rivoli ma siano concentrate nei settori vicini alla “green economy” ambiente, eco-innovazione, produzioni di qualità , economia della cultura, terzo settore, start-up e incubatori d’impresa sempre legati all’economia verde.

Insomma, se si vuole davvero incidere nel dramma sociale rappresentato da quel 40% di giovani italiani che non studiano e non lavorano, la via da battere non sono i sussidi “a perdere”. Le imprese non assumono perché costa un po’ meno, assumono se e quando vedono una domanda in crescita e prospettive di sviluppo per il proprio business. Così è in tempi normali, così è a LavoroGiovanimaggiore ragione in tempi come questi di crisi acuta e prolungata.

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

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