Il tracollo (meritato) del Pd e il populismo (imperfetto) dei Cinquestelle

pubblicato su huffingtonpost.it
Dal 1946 fino a domenica scorsa solo una volta il principale partito della sinistra italiana era sceso sotto il 20%: nel 1992, quando il Pds guidato da Occhetto raccolse alle elezioni politiche poco più del 16%. Ma quel risultato veniva all’indomani di un cataclisma geopolitico globale – la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, il cambiamento di nome del Pci – e comunque vedeva accanto al 16% dei post-comunisti il 13% del Partito socialista e il 5% di Rifondazione comunista, nata pochi mesi prima dalla scissione dell’ex-Pci. Oggi invece pure sommando al 19% del Pd i risultati delle altre forze “progressiste”, il totale si ferma molto più in basso.
Questa catastrofe elettorale della sinistra italiana ha più di una causa. Nasce, prima di tutto, dalla crisi generale e all’apparenza irreversibile della sinistra europea di tradizione novecentesca e in particolare di quella di matrice socialista: i socialisti sono ridotti al 20% in Germania e in Spagna, sono quasi scomparsi in Francia e in Olanda, soffrono da anni nei Paesi scandinavi. La globalizzazione ha alleggerito il peso economico e geopolitico dell’Europa: da una parte alimentando nel “vecchio continente” un disagio sociale sempre più largo fatto di povertà e disoccupazione crescenti e di una generale, diffusa paura del futuro; dall’altra riducendo la disponibilità di spesa pubblica per politiche sociali e redistributive e per questo minando alla base, tanto più in un Paese come il nostro che ha accumulato un enorme debito pubblico, quel felice patto sociale – più welfare, welfare tendenzialmente universale e in cambio un largo consenso per le forze riformiste  – che ha retto per oltre mezzo secolo gli equilibri politici nell’Occidente europeo.
Il tracollo del Pd dipende poi con evidenza dalla totale inadeguatezza della leadership di Matteo Renzi: che cinque anni fa prese in mano un Pd già malridotto con l’intenzione dichiarata, e di per sé lodevole, di aggiornarne la visione, il linguaggio, e che come un “apprendista stregone” ne ha cancellato la vecchia identità senza produrne una nuova. Il Pd “c’est moi”, questo il suo unico messaggio ripetuto ossessivamente agli elettori; e gli elettori hanno risposto di conseguenza.
Infine, il terremoto del 4 marzo è l’ennesima conferma di una regola aurea della “seconda Repubblica”: dal 1994 in poi, nessuna elezione politica è stata vinta da chi aveva vinto quella precedente. Un sigillo che certifica la mediocrità delle nostre leadership politiche nazionali, i cui cicli di popolarità non sopravvivono più di qualche mese alla prova del governo.
Il verdetto delle elezioni del 4 marzo non è meno impietoso per le altre forze di sinistra. Fallimento totale per i Liberi e Uguali degli ex-Pd e di Sinistra italiana, che malgrado le praterie lasciate libere a sinistra dal Pd renziano hanno raccolto la miseria del 3%. Unico senso palpabile dell’”operazione LeU” è stato quello di consentire il riciclaggio  di un pezzetto di vecchio ceto politico: con rarissime eccezioni (una per tutte: l’ex-presidente di Legambiente Rossella Muroni), gli eletti di Liberi e Uguali sono politici di medio o lungo corso, legati tra loro soltanto dall’anti-renzismo e dall’obiettivo di sopravvivere personalmente a se stessi. Così, dieci anni dopo quell’altro flop elettorale della Sinistra arcobaleno, improbabile miscuglio tra comunisti, post-comunisti e Verdi che nel 2008 ottenne quasi alla virgola lo stesso risultato e rimase fuori dl Parlamento, si dimostra una volta di più che per ridare senso e futuro alla parola “sinistra” bisogna, certo, rifiutare la deriva conservatrice che sta prosciugando molti partiti socialisti ma occorre al tempo stesso voltare pagina rispetto all’immobilismo della sinistra “vetero-radicale”.
Assai povero è stato anche il bottino della lista +Europa alleata del Pd e guidata da Emma Bonino. La Bonino è un gigante al confronto con quasi tutti i protagonisti dell’attuale politica italiana, per profilo culturale e per adesione coerente a valori costitutivi di ogni credibile identità di sinistra; su un tema delicato come l’immigrazione, che ha visto lo scivolamento progressivo dello stesso Pd verso posizioni culturalmente e politicamente regressive che rincorrono la destra peggiore, ha avuto il grande merito di tenere dritta la barra della verità e della responsabilità:  in Italia non c’è nessuna “invasione”, i flussi migratori non si possono fermare se non diventando complici di violazioni insopportabili dei diritti umani. Ma l’insuccesso di +Europa dice che una sinistra convincente e competitiva non può presidiare solo il campo, pure decisivo, dei diritti civili: o dà risposte anche sul terreno della “cittadinanza sociale”, oppure appare afona.
Fuori da questo recinto, sempre più ristretto, della sinistra che si chiama per nome, c’è solo destra e c’è solo populismo? Di destra ce n’è sicuramente tanta, come da sempre in Italia; e oggi fa più paura perché egemonizzata da un partito estremista, con tratti esplicitamente anti-europei e xenofobi, com’è la Lega.
Restano i Cinquestelle, i “populisti”. Populismo è un concetto abusato. Come ha scritto Luca Ricolfi  in epigrafe del suo libro dedicato al tema, citando l’economista francese Jean-Michel Naulot, “populista è l’aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”. Si potrebbe aggiungere che per molti osservatori e commentatori, dire populismo è una comodissima scorciatoia per qualificare le scelte elettorali del popolo quando non si capiscono. Ora, che i Cinquestelle maneggino spesso gli “attrezzi del mestiere” del peggiore populismo è indiscutibile: lo fanno adottando un linguaggio demagogico e semplificatorio che nega o rimuove la complessità dei problemi da affrontare e delle soluzioni per risolverli, lo fanno insultando e tacciando di malafede i loro competitori politici, lo hanno fatto quando per inseguire la “pancia” degli italiani si sono scagliati contro le organizzazioni umanitarie che soccorrono i migranti in mare. Così pure, altro tratto tipico delle forze populiste, quando si sono ritrovati ad essere “governo” – Roma docet – hanno spesso dato prova di improvvisazione e incompetenza più che di nuove politiche.
Ma i Cinquestelle non sono solo questo. Intanto come attestano le prime analisi dei flussi elettorali del 4 marzo, una buona fetta del boom grillino è fatto di voti in uscita dal Pd: le stime dell’Istituto Cattaneo dicono per esempio che in città importanti come Brescia, Parma, Firenze, Napoli, tra il 10% e il 35% degli elettori che questa volta hanno votato Cinquestelle, cinque anni fa avevano scelto il Partito democratico. Tutti “neo-populisti”? Tutti improvvisamente non più di “sinistra”? Difficile crederlo, e d’altra parte anche il discorso pubblico dei Cinquestelle non è riducibile al solo vocabolario populista. Alcuni dei temi che li identificano contengono un tasso di “riformismo” maggiore, e sicuramente più contemporaneo, di quanto se ne ritrovi nel Pd di questi anni: parlano molto di ambiente, proponendolo come una questione centrale su cui fondare oggi politiche di progresso, e con l’idea del reddito di cittadinanza – certo di difficilissima realizzazione – mostrano di avere capito più e meglio di tutti gli altri che nelle società post-industriali lavoro e cittadinanza non sono più sinonimi. Peraltro, è curioso che accusarli di assistenzialismo per la proposta del reddito di cittadinanza siano gli stessi – destra e sinistra – che hanno riempito la Sicilia e la Calabria di forestali e hanno inventato in Campania la “truffa” dei lavoratori socialmente utili.
I Cinquestelle si dichiarano né di destra né di sinistra, ma di sinistra nel loro elettorato e pure in alcune delle loro proposte ce n’è parecchia. Per una sinistra che voglia provare a rinascere, allearcisi non è obbligatorio ma dialogarci sì, e dismettere almeno quell’aria di  sufficiente disprezzo con cui fino ad oggi li hanno guardati: probabilmente persino lì dentro si può trovare qualcuno dei mattoni – sociali, culturali – indispensabili all’impresa di ricostruire in Italia una sinistra credibile, adatta e utile alle sfide del terzo millennio.

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

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