L’ambiente dell’Unione

Legambiente incontra Letta, Amato, Realacci  

 

Nell’approssimarsi delle elezioni politiche Legambiente è impegnata nel tentativo di offrire spunti operativi e concreti per politiche economiche che rechino forte il segno della sostenibilità . Il nostro interlocutore è l’Unione di centrosinistra non perché come associazione non auspicheremmo un dialogo anche con la Casa delle libertà , ma per la banale evidenza che cinque anni di governo Berlusconi – dal condono edilizio alla legge delega ambientale – consegnano al paese una coalizione di centrodestra, tra l’altro, anche ambientalmente “insostenibile”. Abbiamo iniziato qualche settimana fa con un confronto con Romano Prodi sul tema strategico dell’energia, nel quale abbiamo avuto risposte positive dal leader dell’Unione su risparmio energetico e fonti rinnovabili. Vogliamo proseguire nella elaborazione di una vera e propria “politica economica per la sostenibilità ” a partire dal convegno che si terrà  oggi a Roma (palazzo San Macuto dalle 15 alle 19) in cui ci confronteremo con autorevoli esponenti del nascente Partito democratico: Giuliano Amato, Enrico Letta e il “nostro” Ermete Realacci. Da quando è nata, Legambiente ha sempre cercato di accompagnare la lettura e la denuncia dell’aggressione ambientale allo sforzo per delineare le iniziative possibili – anche se di duro impegno, ma possibili – per contrastare l’aggressione. E poiché molto spesso il degrado ambientale è socialmente selettivo, nel senso che colpisce di più i più deboli, la nostra ambizione è stata saldare, nella prospettiva della sostenibilità , il miglioramento della qualità  della salute, dell’ambiente, del vivere, con la qualità  sociale di tale miglioramento. Nell’ultimo decennio, la questione della sostenibilità  ha subito un’accelerazione drammatica – basti pensare allo sconvolgimento climatico globale – che ci pare costringa a considerare il cambiamento dei modelli di produzione e di consumo, in particolare nei paesi più ricchi, non più una questione che riguarda la sola sfera etica, ma una necessità  che investe le stesse condizioni materiali di vita. àˆ in questa realtà  difficile che dobbiamo operare il cambiamento. Una realtà , però, che offre al tempo stesso, specie in Italia e in Europa, un’occasione inedita per l’affermazione di una prospettiva di riformismo ambientalista. àˆ infatti evidente che i processi di globalizzazione – con la tumultuosa ascesa di nuovi competitori come Cina, India o Brasile – e altri fattori concomitanti a cominciare dal trend strutturale di prezzi del petrolio molto più alti che in passato, se da una parte alimentano i rischi di declino di economie quali la nostra, dall’altra rendono sempre meno promettenti in termini squisitamente economici i modelli di produzione e di consumo ambientalmente più insostenibili. Insomma, oggi la riconversione ecologica dell’economia nel segno di un minore consumo di risorse naturali e di una decisa valorizzazione delle risorse territoriali – ambientali e umane – si propone non solo come strategia ambientalista, ma come arma decisiva contro il declino, come straordinaria occasione per il rilancio dell’economia e dell’occupazione in Italia e in generale in Europa. La nostra domanda al centrosinistra si potrebbe sintetizzare nella richiesta di condire la sua ricetta, che individua nel rigore di bilancio e nel rilancio della ricerca scientifica e dell’innovazione le condizioni prioritarie per ridare competitività  alle nostre imprese, con concrete politiche che considerino non solo come elementi importanti per la qualità  della vita, ma come scelte di politica economica – scelte per la competitività  -, numerose politiche ambientali: dagli interventi per la riqualificazione urbana e la ristrutturazione antisismica alla difesa del suolo, dal risparmio energetico e la promozione delle fonti rinnovabili al riequilibrio a favore del ferro della mobilità  delle merci e dei passeggeri, dall’agricoltura multifunzionale alla salvaguardia e la valorizzazione della biodiversità , dal turismo di qualità  alla gestione integrata dei rifiuti, dalla ristrutturazione ecologica di processi produttivi all’innovazione di prodotto, dalla valorizzazione dei beni artistici a quella delle produzioni locali di qualità . E per queste politiche individuare gli strumenti organizzativi, legislativi e fiscali incentivanti, che meglio ne consentano la valorizzazione. L’obiettivo è spostare il nostro sistema industriale dalla produzione di quantità  alla produzione di qualità , di qualità  della vita, di “economia della bellezza”, intesa non solo come valorizzazione del patrimonio dei beni artistici e delle produzioni locali, e delle attività  collegate come il turismo, ma anche come crescente sensibilità  del consumatore verso un prodotto di qualità  che richiede più innovazione tecnologica e un’industria più moderna. Sono queste le linee essenziali di “una politica economica per la sostenibilità ” sulle quali Legambiente propone il confronto e l’approfondimento. Questa la sfida di un ambientalismo che vuole provare davvero a cambiare le cose anche attraverso il “governo”: provare a nutrire delle proprie ragioni un’idea riformista e radicale al tempo stesso com’è la costruzione di un’economia che assuma il criterio ambientale, accanto a quello dell’equità  sociale, come misure decisive e irrinunciabili del contenuto di progresso e benessere dello sviluppo.

Sull’energia Prodi è realista

Romano Prodi parla spesso di energia, e questa è già  una buona notizia. 

Da oltre un decennio, infatti, l’Italia non ha una politica energetica, tanto meno ce l’ha avuta nell’ultimo, infausto, quinquennio berlusconiano. Siamo vissuti alla giornata tra piogge di progetti di nuove centrali termoelettriche, trasporti sempre più energivori e inquinanti, il nulla assoluto per promuovere l’efficienza energetica e sviluppare le fonti pulite e rinnovabili. Dunque che il candidato dell’Unione a futuro premier consideri l’energia un tema prioritario dei prossimi cinque anni di governo, va salutata come una novità  promettente. Parla spesso di energia, Prodi, e ne parla mostrando piena consapevolezza che una svolta è d’obbligo. Dal 2000 in avanti, mentre in Italia ha regnato l’immobilismo, sono cambiate tutte le principali coordinate su cui si reggono – dovrebbero reggersi – le scelte di politica energetica. Intanto le coordinate ambientali: i mutamenti climatici non sono più una minaccia, ma una realtà , e tranne pochi negazionisti l’intera comunità  scientifica concorda che tale problema sia originato, o comunque favorito, dalla troppa concentrazione in atmosfera di anidride carbonica legata a sua volta al troppo petrolio e carbone bruciato per produrre energia. Con l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, l’intero mondo industrializzato con la sola macroscopica eccezione degli Usa, ha formalizzato il suo impegno a ridurre rapidamente le emissioni che danneggiano il clima: anche l’Italia l’ha fatto, solo che mentre i partner europei sono molto vicini ai rispettivi obiettivi di riduzione dei gas serra (Germania -18% sul 1990, Regno Unito -15%, Francia -6%), noi viaggiamo contromano, più del 10 per cento sopra ai livelli di emissioni del 1990. Ma la novità  ancora più grande, su cui Prodi giustamente insiste molto, è che oggi cambiare in radice il nostro modo di produrre e consumare energia è una necessità  assoluta per dare nuovo slancio all’economia italiana, per accrescerne la competitività . Qualche giornale di destra, ma anche alcuni commentatori vicini al centrosinistra, hanno trattato con sarcasmo o con sufficienza ciò che il Professore ha detto in un convegno di Legambiente a proposito di quali debbano essere le linee di una nuova politica energetica: miglioramento dell’efficienza, decollo dell’energia solare, scelta del metano come principale energia fossile. Peccato che le cose prospettate da Prodi siano le stesse che stanno facendo i paesi europei più avanzati e dinamici: la Danimarca, dove già  oggi le energie pulite contribuiscono per oltre il 20% alla produzione elettrica; la Germania, dove nel mese scorso per la prima volta la produzione energetica da rinnovabili ha superato quella da nucleare; l’Irlanda, dove in dieci anni l’intensità  energetica del Pil è diminuita del 25%; la Spagna, con Barcellona e altre città  che hanno introdotto l’obbligo d’installare pannelli solari su tutte le nuove costruzioni. Non si capisce perché da noi questi stessi traguardi sono guardati col sopracciglio alzato da molti degli stakeholders del mondo energetico. Tanto più che nel caso dell’Italia l’esigenza di scommettere sull’efficienza, che riduce il fabbisogno di energia, e sulle rinnovabili, che sono risorse interne, è ulteriormente accresciuta dal fatto che importiamo oltre l’80% delle fonti energetiche primarie. Saremmo insinceri se omettessimo che i cambiamenti che auspichiamo chiamano alla coerenza e alla responsabilità , accanto alla politica e alle imprese, anche il mondo ambientalista. Fa la caricatura di se stesso un ambientalismo che si oppone all’energia eolica (che va fatta con ogni attenzione al paesaggio, ma va fatta); e si condanna all’impotenza un ambientalismo che rifiuta l’idea che per sostituire il petrolio e il carbone col gas non bastano i metanodotti ma serve costruire alcuni impianti di rigassificazione. Infine, c’è da rispondere a una domanda – maliziosa ma non peregrina – che viene spesso rivolta a chi come noi invoca una politica energetica di forte cambiamento e innovazione: chi paga? Una prima risposta viene dall’esperienza maturata sul campo da una grande impresa italiana, la St Microelectronics del vicepresidente di Confindustria Pasquale Pistorio: in dieci anni St ha investito circa 40 milioni di euro in tecnologie per il risparmio energetico e in altre innovazioni ambientali, finora ha risparmiato in minori consumi – dunque in minori costi – tre volte tanto. Quanto alle fonti rinnovabili, certo per svilupparsi necessitano di incentivi: e però i difensori dello status quo raramente si ricordano dei sussidi, spesso nascosti, destinati oggi ai combustibili fossili, e quasi mai dicono che in base al protocollo di Kyoto se l’Italia non metterà  un bel po’ di sole e vento al posto del carbone e del petrolio, dovrà  pagare svariati miliardi di “penali”. Insomma, se Prodi parla spesso di energia, se ne parla usando parole e indicando obiettivi non lontani dai nostri, non è perché stregato dagli ambientalisti. La spiegazione è più semplice: prima da presidente della Commissione europea, quando diede la spinta decisiva alla ratifica del protocollo di Kyoto, ora da candidato premier del centrosinistra, ha capito che sulla politica energetica l’Europa, l’Italia, giocano un pezzo importante del loro futuro e del futuro di tutto il mondo.

Scelte avventate e procedure omertose

La vicenda dimostra l’incapacità  e la superficialità  del governo a gestire il problema del nucleare 

delle scorie nucleari doveva essere affrontata 15 anni fa, nel 1987, subito dopo l’uscita del nostro paese dal nucleare. Mettere in sicurezza le scorie, fare un nuovo piano energetico basato sulla riduzione dell’uso dei combustibili fossili e puntando nella transizione ad un maggior uso del metano e promuovendo le fonti rinnovabili e il risparmio energetico. Questo è quello che l’Italia avrebbe dovuto fare allora, invece colpevolmente si è lasciato marcire il problema che adesso torna a galla con tutti i risvolti negativi di un ritardo di quasi un ventennio. Ma la difficoltà  della situazione non giustifica scelte avventate, né legittima procedimenti poco trasparenti e lineari come quello che ha individuato Scanzano Jonico unico sito possibile per lo stoccaggio di rifiuti ad alta radioattività . Lascia sbigottiti la procedura omertosa messa in atto: nessuno a quanto pare, dal sindaco alla Regione, era stato messo a conoscenza dei fatti, né è stato reso pubblico alcuno dei documenti e degli studi scientifici sui quali si presume la scelta sia stata effettuata. C’è poi un piccolo giallo: se è vero quello che il viceministro Viceconte dichiarava due giorni fa alle agenzie di stampa, il governo sarebbe propenso a riconsiderare la scelta: ma allora, delle due l’una. O la comunicazione interna al governo è talmente lacunosa che al sottosegretario non è giunta la notizia che Scanzano Jonico è, secondo il governo e i tecnici della Sogin, l’unico sito italiano adatto ad ospitare il deposito; oppure dobbiamo dedurne che la solidità  dei dati scientifici e degli approfondimenti tecnici sui quali si è fondata la scelta – e che nessuno al momento conosce – è tale da poter essere ribaltata in soli quattro giorni. E poi, ci chiediamo, è stato correttamente valutato il rischio geologico? L’area, infatti, è stata di recente riclassificata, passando ad un livello di rischio III: perché allora non è stata scelta una zona a rischio IV, più basso. E ancora: Scanzano Jonico è quantomeno defilato rispetto agli assi principali dei trasporti nazionali. Trasportare in Basilicata 80mila metri cubi di scorie radioattive sparse in tutta Italia significa far muovere 8 mila vagoni e calcolando che a Scanzano arrivano solo una statale e una linea ferrata a binario unico, ogni convoglio, dati i lunghissimi tempi che richiederà  questa operazione, porterà  alla totale paralisi. In tutta la vicenda inoltre è stato trascurato il fatto fondamentale che le scorie non sono tutte uguali. I rifiuti nucleari hanno diversa origine e sono di diverso tipo: vi sono scorie a bassa radioattività , derivanti dal ciclo di combustibile che comprendono carta, strumenti, vestiario, filtri e altro; scorie a radioattività  intermedia che comprendono essenzialmente resine, fanghi chimici e rivestimenti metallici del combustibile e scorie ad alta radioattività  che includono i prodotti di fissione e gli elementi transuranici prodotti nel reattore. Quest’ultime, altamente radioattive, sono le più pericolose e destinate a restare tali per diverse decine di migliaia di anni.

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