Tutti i mali dell’Ilva

pubblicato su Repubblica

Si chiama Ilva di Taranto l’”anello mancante” che collega tra lorotutti i governi degli ultimi 10 anni: da Berlusconi a Monti, da Renzi e Calenda fino agli attuali giallo-neri. Un filo di miopia e insipienza pieno zeppo di decreti “salva-Ilva” cominciati ancora prima che la magistratura alzasse il coperchio – in ritardo rispetto ai fatti ma decisamente in anticipo sulla politica – sulla gestione sistematicamente fuorilegge della fabbrica tarantina. Ora la notizia della cassa integrazione per un lavoratore su cinque decisa dai nuovi proprietari di Arcelor Mittal certifica che l’accanimento terapeutico per mantenere in vita l’Ilva così com’è, non soltanto ha prolungato l’agonia ambientale e sanitaria per i tarantini, ma nemmeno è servita a dare un futuro solido ai lavoratori dello stabilimento: 2.500 lasciati in capo all’amministrazione straordinaria quando l’Ilva è passata ad Arcelor, adesso 1.400 sospesi dal lavoro per i prossimi mesi in attesa – dichiara la proprietà – che “cambino le condizioni di mercato”.

Ma le condizioni di mercato difficilmente cambieranno, questo il punto. I processi di dematerializzazione dell’economia sono destinati inevitabilmente a ridurre la domanda globale di acciaio, e d’altra parte le lavorazioni di base si allontaneranno sempre di più dall’Europa per ragioni, anch’esse inevitabili, di costi. La siderurgia cresce ormai solo in Asia (metà di tutto l’acciaio prodotto nel mondo è cinese), mentre in Europa restano competitive solo le produzioni “specializzate” e tecnologicamente più sofisticate. Questo scenario non è una novità improvvisa, è chiaro da anni. E da anni, si deve aggiungere, i maggiori player della siderurgia italiana sono impegnati in un processo di progressiva dismissione delle produzioni di base, a cominciare da quelle a caldo che impiegano il carbone e sono anche le più inquinanti e dannose per la salute: chi ha compiuto questa scelta, da Arvedi (Cremona) alle acciaierie di Terni al distretto siderurgico bresciano, sta difendendo con successo le proprie posizioni di mercato.

Tutto ciò, ripetiamo, è chiaro da tempo, e avrebbe dovuto condurre lo Stato, che per un periodo non breve è stato proprietario di fatto dell’Ilva, a imboccare una strada analoga, tanto più urgente di fronte alla crisi ambientale e sanitaria nella quale l’Ilva ha precipitato da qualche decennio la città di Taranto, drammaticamente confermata dai dati epidemiologici elaborati e diffusi anno per anno non dai soliti rompiscatole ambientalisti ma dall’Istituto superiore di sanità nei vari aggiornamenti del suo rapporto “Sentieri”.

Questa cecità irresponsabile ha contagiato quasi tutta la politica. Che (con il consenso di settori autorevoli del sindacato) prima hafatto consapevolmente finta di niente per non “disturbare” i Riva, cui l’Ilva venne “regalata” dallo Stato nel 1995; poi ha impostouna decina di decreti legge “ad aziendam” che hanno permesso alla fabbrica una volta commissariata di continuare ad avvelenare, “legalmente”, Taranto e i polmoni e il sangue dei suoi abitanti; infine, ad opera dell’asse insospettabile Calenda-Di Maio, ministri dello sviluppo da tre anni, ha deciso di restituire l’Ilva al mercatosenza pretendere dall’acquirente una strategia di radicalericonversione dello stabilimento basata sulla rinuncia alle produzioni a caldo: strategia che si sarebbe già dovuta mettere in campo da almeno dieci anni, indispensabile per dare finalmente una vera tutela al diritto alla salute dei tarantini e per difendere il futuro occupazionale di migliaia di lavoratori che, come si capisce meglio in queste ore, continua ad essere a rischio.

L’attuale governo, dunque, agisce in perfetta continuità con una sterminata sequenza di scelte pubbliche fallimentari da cui escono a pezzi sia i diritti costituzionali a vivere e lavorare in un ambiente sano sia le ragioni di una moderna ed efficace politica industriale, cioè del dovere dello Stato, sancito anch’esso dalla Costituzione, di orientare l’agire economico verso l’interesse generale. Poi, se tutto questo dovesse portare al collasso dell’Ilva, si può essere certi che chi oggi lavora per un Ilva “giurassica”, punterà il dito contro magistrati giustizialisti e ambientalisti nemici del progresso.

 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

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