Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

La via stretta

Del dramma sociale di Taranto si può pensare tutto tranne giudicarlo sorprendente. La storia dell’Ilva è antica e molto esemplare. E’ la storia dei grandi poli dell’industria pesante italiana, quasi sempre industria pubblica, disseminati dagli anni Cinquanta e Sessanta nel cuore di città  grandi e piccole: Porto Marghera a Venezia, Bagnoli a Napoli, Cornigliano a Genova, e poi Taranto, Mantova, Manfredonia, Augusta. Scelta che già  quando venne compiuta – questa è una prima verità  da affermare contro troppi racconti fantasiosi – mostrava evidenti controindicazioni per il rischio di esporre centinaia di migliaia di persone all’impatto ravvicinato di un forte, spesso devastante inquinamento. Quel modello poi entrò in crisi, e non solo perché l’ambiente e la difesa dall’inquinamento sono diventati sempre più importanti nella percezione sociale. E’ entrato in crisi anche sul piano squisitamente industriale. Così è rimasta l’eredità  terribile di decenni di avvelenamento impunito, di immense aree da bonificare, e al tempo stesso se ne sono andati centinaia di migliaia di posti di lavoro.  Qui è la differenza con Taranto, dove alla fine del secolo scorso lo stabilimento siderurgico Italsider, con il suo carico di problemi ambientali mai affrontati, venne acquistato dalla famiglia Riva, e dove tuttora lavorano oltre diecimila persone cui se ne aggiungono almeno altrettante nell’indotto. I padroni privati dell’Ilva, come prima i padroni pubblici, hanno responsabilità  rilevantissime per non avere fatto ciò che potevano e dovevano – come investimenti e come miglioramenti tecnologici – per abbattere l’impatto inquinante della fabbrica. Così, come ha evidenziato Legambiente in un suo recente dossier, l’Ilva è in Italia l’impianto industriale che emette in assoluto più  diossina, di idrocarburi policiclici aromatici, di piombo, di mercurio, di benzene, di cromo, con conseguenze sanitarie assai gravi. Che la magistratura da alcuni anni abbia cominciato ad occuparsi dell’Ilva come di altre situazioni analoghe di inquinamento industriale impunito – basti pensare alle inchieste dell’allora procuratore Casson su Porto Marghera – non è stato solo inevitabile: è stato ed è provvidenziale. Ma nel caso di Taranto la via da percorrere è particolarmente stretta: bisogna riportare l’llva in condizioni di legalità  e in condizioni di sicurezza ambientale e sanitaria per chi ci lavora e per tutti i cittadini di Taranto, e nello stesso tempo bisogna evitarne la chiusura che rappresenterebbe per la città  una catastrofe sociale insopportabile. E’, lo ripetiamo, una via molto stretta, ma è l’unica realistica e responsabile. E’ la via imboccata non da oggi dalla Regione Puglia di Vendola, che con una legge del 2008 ha equiparato i limiti alle emissioni in atmosfera di diossina per gli stabilimenti pugliesi a quelli europei. I Riva hanno cercato in ogni modo di fermare questa norma, ma fortunatamente hanno perso e hanno dovuto avviare interventi concreti per ridurre le emissioni inquinanti. Ora bisogna proseguire sulla stessa strada,  per dare a Taranto, nei tempi più rapidi, un’Ilva che non sia più fabbrica della morte. Infine, una notazione generale. Dopo i sigilli messi dalla magistratura all’Ilva, qualcuno è tornato ad agitare l’idea che lavoro e ambiente siano interessi inconciliabili, e che in una fase come l’attuale di acuta crisi economica il primo interesse debba avere la meglio sul secondo. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi. Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come  in qualunque altra città , non è disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio. Per l’industria italiana, puntare sull’eccellenza ambientale non è soltanto un  obbligo imposto dalle leggi; è l’unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l’automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale l’hanno davvero capito: c’è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

Regalare a Monti un’agenda democratica

Un flesso della Storia. S maiuscola. Siamo lì e quasi non ce ne accorgiamo, distratti dalle meschinità  berlusconiane (ancora!), dagli arrembaggi di effimeri movimenti qualunquisti, dalla difficoltà  nostra – di noi Pd, di noi “sinistra” – di riconoscere la vera natura di questa crisi. Una crisi diversa da tutte le altre che abbiamo conosciuto: non solo perché sconquassa con effetti devastanti popoli che ci sono vicinissimi, prima i greci e ora gli spagnoli, e perché mette a rischio anche a casa nostra sicurezze e benessere, certo diseguali, che ci sembravano acquisiti una volta per tutte. Diversa e più grande, soprattutto, per la sua globalità ”, perché le sue radici profonde non sono tanto nelle convulsioni del capitalismo finanziario, che per salvare la ricchezza di pochi non esita ad aggredire interi Paesi. Sono prima ancora in un processo che non ha precedenti e non si può fermare: un processo che sta spostando, in parte ha già  spostato, il baricentro economico e geopolitico del mondo dalle due sponde dell’Atlantico, Europa e Usa, a un luogo geograficamente virtuale ma concretissimo che sta da qualche parte tra la Cina, l’India, forse il Brasile. 

Un flesso così in altre epoche si sarebbe risolto in guerre. Oggi le guerre restano confinate nell’estrema periferia del nuovo come del vecchio baricentro, in Africa specialmente, e fortunatamente non sono tra le vie d’uscita realistiche dalla crisi mondiale e dai suoi sconvolgimenti. 

In questo mondo nuovo che sta prendendo forma, noi italiani siamo più piccoli, e da soli irrimediabilmente più insignificanti, di quanto eravamo prima. Da questa consapevolezza dovremmo sempre partire, con responsabilità  e coscienza, anche nell’occuparci della nostra “piccola” agenda italiana. Allora ci apparirebbe chiaro che ogni nostro sforzo deve essere diretto alla costruzione di un unico, grande Paese-Europa: sola via per accompagnare con dolcezza e senza eccessivi traumi lineluttabile spostamento di ricchezza e potere verso altre latitudini e longitudini, solo modo per salvare le conquiste più preziose della nostra storia – a cominciare dai sistemi di welfare – e per mettere a frutto sul piano dell’economia reale, dei rapporti di forza competitivi, il saper fare tecnologico, manifatturiero, creativo nel quale tuttora primeggiamo. Proprio qui, nell’urgenza imperativa di scommettere tutto sull’Europa, è il valore aggiunto rappresentato da Monti e dalla sua autorevolezza internazionale. Un valore del quale, onestamente, non si capisce come potremmo fare a meno nel prossimo futuro. Per questo commette un gravissimo errore chi, dai cosiddetti “giovani turchi” del Pd alla sinistra radicale e sindacale ai demagoghi che si agitano tra Grillo e Di Pietro, irresponsabilmente sostiene che di Monti dovremmo sbarazzarci al più presto, e che insieme a lui dovremmo buttare a mare  riforme,  fiscal compact, azzeramento del deficit, come se fossero questi i mali dellItalia. Daltra parte, appare assai poco convincente anche il sostegno incondizionato alla “agenda Monti” proposto da nostri amici e compagni del Pd che, così sembra, invocano per la prossima legislatura un sostanziale “continuismo” rispetto alle scelte di governo degli ultimi mesi. In realtà  per il futuro noi abbiamo bisogno di Monti molto di più che del suo governo. Abbiamo bisogno della credibilità  di Monti, del suo contributo pressoché insostituibile  come ambasciatore dellItalia migliore sobria, onesta, rigorosa nelle trattative internazionali, difficili e  aspre, che accompagneranno ancora a lungo la rivoluzione globale in corso. Ma accanto a Monti ci serve un governo che sappia indicare all’Italia, e cominciare a costruire, la via per il futuro. Qui è il vero deficit dell’esperienza Monti, simboleggiato al meglio dalla palese inadeguatezza del Ministro Passera: misto di conservatorismo e subalternità  a qualche residuo “potere forte”, campione di inazione nel compito di ridare qualche pompata di ossigeno all’economia reale. 

E’ questo il fronte su cui deve attestarsi il Partito democratico: non dividersi tra montiani e anti, ma dire da subito che il sostegno a Monti, utile e forse necessario anche per il futuro, è vincolato a scelte di visione radicalmente diverse da quelle operate sinora: green economy e spinta a ricerca e educazione, patrimoniale per difendere i redditi più bassi, impegno per i diritti civili e battaglia per la legalità  in ogni campo. Insomma, offrire in regalo a Monti una incisiva “agenda democratica”: questo, noi crediamo, dovrebbe dire con nettezza chiunque voglia candidarsi a guidare il centrosinistra e i progressisti. 

P.S. Molti si agitano sulla data delle prossime elezioni. Importante non è la data ma come si voterà . Chi scrive ha fatto di tutto contro il porcellum, anche un referendum, ma questo non ci esime dal dire che uscirne con il ritorno alle preferenze è una soluzione peggiore del male. Con la politica ridotta com’è, ci toccherebbe un parlamento di cacicchi e ras di quartiere che ci farebbe persino rimpiangere quello dei nominati. Si tratti su tutto, si conceda il concedibile pur di giungere a un compromesso con le altre forze politiche che consenta di seppellire l’orrenda legge Calderoli. Ma ritornare alle preferenze per piacere no! 

 

ROBERTO DELLA SETA 

FRANCESCO FERRANTE 

F35: ora fermatevi

La prima rata dell’Imu pagata nell’intera provincia di Palermo, 110 milioni e rotti di euro, non basterebbe per acquistare un solo F-35, cacciabombardiere ad alta tecnologia prodotto dalla Lockeed. Bene, anzi male, perché l’Italia di  F-35 a suo tempo ne ordinò 131, per una spesa complessiva superiore ai 15 miliardi di euro. 

Finora questo mega-investimento è passato pressoché indenne attraverso tutti i decreti Tremonti e Monti di tagli più o meno lineari alla spesa pubblica, attraverso l’indignazione di una bella fetta di opinione pubblica e di decine di associazioni dalla Tavola della pace a Sbilanciamoci, ora attraverso la “spending review”. Unico risultato, l’ordine è stato ridimensionato a 90 arei, con  una spesa prevista che a oggi è attestata attorno ai 12 miliardi di euro.

In realtà , la scelta rischia di costarci ancora più caro. E’ ormai prassi costante e anche un po’ abusata agitare lo spauracchio della Grecia e della sua crisi profonda, ma se si parla di spese militari l’esempio greco è veramente paradigmatico.  Negli anni della spesa pubblica a briglia sciolta della Grecia appena entrata nell’eurozona, Atene acquistò carri armati, sommergibili e caccia dalla Germania per circa tre miliardi di euro, e dalla Francia navi e elicotteri per più di 4 miliardi. Così, mentre salari e pensioni ellenici vengono tagliati del 25% e secondo l’Unicef torna nel Paese lo spettro della malnutrizione infantile, per effetto di quegli impegni la Grecia quest’anno ha visto la sua spesa militare crescere del 18% rispetto al 2011.

Allora, pretendere qui da noi una revisione drastica del programma di acquisto degli F-35 non è, almeno non è soltanto, una richiesta di stampo pacifista. E’ soprattutto un’esigenza elementare di responsabilità  verso l’Italia e verso gli italiani.

La conferma dell’acquisto di 90 F-35, infatti, più che servire alla modernizzazione dei nostri sistemi di difesa, attiene alla storica commistione di interessi tra l’industria bellica (un bel pezzo della quale è nelle mani, oggettivamente pubbliche, di Finmeccanica) e le scelte della politica.

L’Italia non ha nessun bisogno di 90 o 50 o 30 super-caccia bombardieri F-35, e se rinunciasse ad acquistarli non è vero che dovrebbe pagare, come sostengono taluni osservatori “interessati”, penali salatissime. L’uscita del nostro Paese dal programma non comporterebbe oneri ulteriori rispetto a quelli già  stanziati e pagati per la fase di sviluppo del progetto: così prevede l’accordo fra i Paesi compartecipanti sottoscritto anche dall’Italia con la firma del 7 febbraio 2007. Al momento la nostra flotta di aerei militari conta una cinquantina di nuovissimi Eurofighter, che nel giro di pochi anni saliranno a 96, una sessantina di Amx, una settantina di Tornado aggiornati, quindici F-16 americani in affitto e sedici Harrier a decollo verticale sulle due portaerei della Marina, anch’essi aggiornati. “Aggiornati” significa che la loro vita operativa è stata prolungata almeno fino al 2025.

Allora perché mai lo Stato italiano, nel pieno della crisi economica e nella scarsità  sempre più acuta di risorse pubbliche, dovrebbe destinare svariati miliardi a un programma la cui unica, vera utilità  è per la lobby dell’industria bellica?

Del resto, l’F-35 della Lockeed è in crisi in tutto il mondo: la recessione economica da una parte, i numerosi e crescenti problemi tecnici del “prodotto” dall’altra, hanno spinto diversi Paesi, tra questi anche grandi Paesi come il Canada, a cancellare i loro ordini.

Nel marzo 2012 un documento della Corte dei conti americana ha definito l’F-35 il più costoso fallimento della storia militare degli Stati Uniti. L’Italia faccia presto ad accorgersene, o il fallimento potrebbe contagiarci.

 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

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