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Contro il totem dell’alta velocità  Torino-Lione

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L’alta velocità  Torino-Lione è un’opera costosissima (almeno 10 miliardi, 4 dei quali a carico dell’Italia) e inutile, ma per quasi tutta la politica italiana – unica eccezione i grillini – è diventata un totem. A contestarla, non per partito preso e sindrome Nimby ma numeri alla mano, si viene tacciati da reazionari, nemici del progresso, oscurantisti. Eppure per capire che il progetto è insensato basta un esercizio elementare di razionalità . Su quella linea i flussi di passeggeri sono modesti, da sempre. Quanto alle merci, in Europa viaggiano sempre di meno da est a ovest e sempre di più da nord a sud: per questo il movimento delle merci lungo l’asse italo-francese è in costante declino da anni, da molto prima che cominciasse la crisi.

Spendere svariati miliardi di soldi pubblici per la nuova Torino-Lione, come l’Italia e la Francia (con minore entusiasmo) si accingono a fare è dunque un grande, grandissimo spreco. Per l’Italia poi è uno spreco doppio. Il nostro sistema ferroviario fa acqua da tutte le parti, la gran parte dei passeggeri e delle merci viaggia su gomma con inquinamento e consumi energetici altissimi, i treni utilizzati dai pendolari sono pura archeologia industriale. Con le risorse che verranno impegnate per la Torino-Lione si potrebbe accorciare di parecchio la distanza, oggi larghissima, che separa l’Italia dei trasporti da gli altri grandi Paesi europei. E se  si vuole davvero ridurre di un bel po’ l’infinita schiera di Tir che affollano i valichi alpini in direzione della Francia – obiettivo sacrosanto – c’è un’alternativa molto più rapida e a buon mercato dell’alta velocità  in Val di Susa: basterebbe rendere più moderne le linee che ci sono, da Ventimiglia a Modane, e magari smetterla di sovvenzionare a pioggia l’autotrasporto come fanno tutti i governi di destra e di sinistra da cinquant’anni.  

Questo argomenti di banale “buonsenso riformista” finora non hanno avuto alcuno spazio nel dibattito tra favorevoli e contrari alla Torino-Lione. Questa è diventata una guerra di religione tra No-tav duri e puri, per i quali l’alta velocità  è il simbolo di tutti i mali del mondo, e Sì-tav ugualmente irriducibili, che ci vedono incarnata l’idea stessa del progresso. La prossima battaglia è in programma domani, sabato 23 marzo, davanti ai cantieri tav di Chiomonte in Val di Susa, con i centocinquanta eletti grillini che arriveranno per dare man forte al popolo anti-tav della valle.  

Ma per la sinistra che si vuole riformista è un errore imperdonabile lasciare solo a Grillo la bandiera del no a questo buco nero di denaro pubblico gettato via che sarebbe la Torino-Lione. C’è da sperare che lo capiscano, sia pure in ritardo: magari cominciando da qui una vera, seria, efficace “spending review” che metta ordine nei conti pubblici e consenta di fare alcune cose veramente urgenti che servono all’Italia. 

Francesco, un Papa anche verde

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Non solo il primo papa non europeo, il primo papa gesuita, il primo che si chiama Francesco. Anche il primo papa ambientalista. Visto il nome che ha scelto c’era forse da aspettarselo, ma in ogni caso colpisce che papa Bergoglio nel suo primo discorso da pontefice abbia dato tanto peso all’ambiente: “Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità  in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà : siamo ‘custodi’ della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di morte e distruzione accompagnino il cammino di questo nostro mondo!”.

La Chiesa cattolica non ha sempre avuto un rapporto facile con la cultura ecologica: guardata talvolta con sospetto perché sembrava togliere l’uomo dal piedistallo antropocentrico della tradizione cristiana. Queste preoccupazioni non trovano posto nell’idea francescana della “custodia del creato”: anzi, di più, nella visione di papa Francesco la cura dell’ambiente diventa quasi una metafora della responsabilità  verso l’altro e verso gli altri.

 

L’hanno ripetuto in tanti: questo papa è atteso da prove difficilissime, deve riconciliare il potere ecclesiastico con quel mondo vasto e crescente di cattolici non più disposti a tollerare le troppe ombre della Chiesa di Roma, dai preti pedofili nascosti e coperti agli affari sporchi della finanza vaticana all’incapacità  di aprirsi a temi ormai ineludibili come i diritti delle persone omosessuali.

Rispetto a ognuna di queste sfide la Chiesa è costretta a inseguire, a “giocare in difesa”, mentre sull’ambiente può attaccare. Non ha troppo di cui pentirsi o vergognarsi, comunque molto meno degli altri grandi poteri a cominciare dalla politica.

 

Ecco, l’ambiente è un “terreno di gioco” su cui papa Francesco potrà  davvero dimostrarsi più moderno, più contemporaneo di tutti gli altri potenti della Terra, su cui potrà  farsi l’interprete di un’idea di progresso più evoluta – e oggi sempre più popolare – che vede l’ecologia come un valore irrinunciabile. Non sarebbe male, proprio no, se questo magistero ecologista riuscisse a fare breccia persino nella politica italiana, la più anti-ecologica d’Europa. Che ora applaudirà  il papa ecologista ma da domani ricomincerà  con le sue scelte che del “creato” di fatto se ne infischiano, che fanno crescere sia la povertà  che l’inquinamento. Il Vaticano ha risolto la sua “crisi di governo” eleggendo un papa che nel suo discorso d’investitura mette al centro l’ambiente, chissà  quanto tempo dovrà  passare prima di sentire parole magari più laiche ma altrettanto impegnate da un leader politico nostrano.

 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Il vuoto laburismo che non capisce l’ambientalismo

Pubblicato su Il manifesto

L’ambiente è un tema importante. Indispensabile per capire il mondo attuale: la crisi ecologica, l’attenzione crescente verso i beni comuni, l’avanzata della green economy… E utile, utilissimo, anche per orientarsi in questa stagione inedita e complicatissima della politica italiana: per misurare ad esempio la distanza notevole che separa la dirigenza del Pd da un riformismo contemporaneo, e per indagare le premesse culturali e sociali che hanno reso possibile il trionfo elettorale dei Cinquestelle.
La larga maggioranza del gruppo dirigente del Pd non riesce a capire l’importanza dell’ambiente. Non capisce, soprattutto, come sia possibile che per un numero sempre più grande di persone la domanda di ambiente si intrecci con quella del lavoro, del reddito, dell’equità  sociale, e conti altrettanto. Lo si è visto con i referendum del 2011: la nomenclatura democratica prima ha osservato con sospetto la mobilitazione referendaria che cresceva, poi è rimasta quasi stralunata scoprendo che 30 milioni di italiani – malgrado la crisi economica, malgrado problemi materiali per molte famiglie drammatici – considerino prioritarie questioni non direttamente economiche come l’acqua pubblica o il no al nucleare. Questo ritardo nel riconoscere l’odierna centralità  delle questioni ambientali accomuna il Pd a molti altri partiti socialisti, legato com’è a una tradizione culturale che vede il progresso, lo sviluppo quali fenomeni lineari e illimitati. Ma in Italia si manifesta con ancora più forza per la prevalenza nella nostra sinistra di una tradizione – quella del Pci – che ha sempre faticato ad adeguare le proprie visioni all’evoluzione sociale e culturale e che di fronte a tutte le nuove sensibilità  e i nuovi movimenti dell’ultimo mezzo secolo – dal ’68 al femminismo, dall’ambientalismo ai diritti civili –  ha sempre reagito arroccandosi.
Prigioniero della sua genetica arretratezza, il gruppo dirigente del Pd, di cui i cosiddetti “giovani turchi” sono l’espressione più recente ma anche più ottusa, declina secondo alfabeti totalmente inattuali le stesse ricette per arrestare il declino economico dell’Italia: attardandosi a parole in una sorta di vuoto “gramelot” laburista, coltivando nei fatti rapporti assai stretti – rapporti molte volte opachi, di scambio e di potere – con i settori meno dinamici, oltre che più antiecologici, della struttura economica  (l’edilizia della rendita fondiaria, i grandi gruppi dell’energia fossile, l’industria pesante). Tutte e due queste inerzie conservatrici contraddicono l’ambizione dei democratici di guidare un progetto politico di radicale cambiamento e li allontanano dall’elettorato più giovane. Entrambe lasciano in ombra le grandi innovazioni – ecologia, educazione, tecnologia – di cui l’Italia come l’intero Occidente ha disperato bisogno per guadagnarsi un futuro prospero.
Anche se l’ascesa spettacolare del movimento Cinquestelle è dovuta soprattutto a un’efficacissima, e largamente giustificata, crociata “anti-casta”, però proprio l’ambiente è uno degli argomenti più frequentati dai grillini: così nei loro programmi, nel loro discorso pubblico, nei curricula di buona parte dei loro eletti. Da questo punto di vista i Cinquestelle, bisogna dirlo, non hanno inventato nulla: l’ecologia, i beni comuni, sono temi da tempo “a disposizione”, ed erano centrali già  nelle mobilitazioni no-global di dieci anni fa. Loro li hanno raccolti, depurati di qualche tossina vetero-ideologica di troppo (l’ambientalismo come nuova frontiera anti-capitalista), conditi con nuovi ingredienti – la democrazia della rete, un certo comunitarismo nimby – di per sé discutibili  ma gettonatissimi nell’Italia disgustata dalla politica dei partiti. Certo il movimento di Grillo resta essenzialmente un “sintomo” dell’accresciuta importanza culturale e sociale dell’ambiente, mentre il suo concreto programma non pare sempre all’altezza di curare i tanti e gravissimi mali ambientali dell’Italia. Ma un fatto è indiscutibile: i Cinquestelle sono l’unica forza politica italiana che propone  l’ambiente come parte integrante e decisiva di una prospettiva generale di cambiamento, e ciò contribuisce a farli apparire a molti non solo più moderni ma più riformisti anche del Pd.
Il Partito democratico vuole ripartire dopo la dolorosissima “non vittoria” di queste ultime elezioni? Allora la smetta di perdere tempo e faccia corteggiando i “cinquestelle” dopo averli sbeffeggiati per mesi, e provi invece a diventare più contemporaneo mettendo per davvero l’ambiente al centro del suo sistema di valori e di interessi, e la green economy nel cuore della sua idea di sviluppo. Sarebbe più serio e funzionerebbe meglio.
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

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