pubblicato su La Nuova Ecologia
È miope chi pensa di resistere alla green economy. Ma è da stolti pensare che possiamo lasciar fare alla “mano invisibile” del mercato. La rivoluzione verde in atto va governata
Nel 2024, a livello globale, il 92,5% (non è un refuso) della nuova potenza elettrica è stato realizzato con impianti a fonte rinnovabile (fonte: Irena). Sembra ieri quando ci dicevano che le rinnovabili sarebbero state, al più, una nicchia del mercato elettrico. E invece oggi i soli fotovoltaico (452 GW) ed eolico (113 GW) installati l’anno scorso stanno producendo più di 800 TWh/anno, come se avessimo costruito contemporaneamente 120 centrali nucleari!
Su queste pagine siamo tornati più volte su un concetto: l’innovazione tecnologica sta rendendo sempre più conveniente e sostenibile la green economy. Vale per la produzione di energia elettrica, in cui la resistenza fossile e le nostalgie nucleari sono già sconfitte dagli economics delle rinnovabili. Ma anche per l’elettrificazione dei trasporti (con le auto elettriche più “fighe”, economiche, confortevoli destinate a diventare rapidamente meno care delle loro vetuste concorrenti col motore endotermico) e per il riscaldamento e raffrescamento delle nostre case, con le pompe di calore che come spiega spesso Arse – l’Associazione per il riscaldamento senza emissioni – non solo sono “convenienti” durante il loro funzionamento ma ormai si possono installare senza bisogno di smontare l’impianto grazie al fatto che possono produrre temperature sufficientemente alte.
Lo stesso discorso vale nelle produzioni industriali più hard, dalla metallurgia alla chimica. Nella produzione di rame vince la “circolarità” della materia prima utilizzata. Non a caso una multinazionale con la testa in Italia (una delle poche) come Kme può competere con i suoi concorrenti globali, anche asiatici. Nella siderurgia, mentre l’ex Ilva si dibatte in una crisi senza fine dovuta alla balbuzie (se non peggio) della politica, il resto del sistema industriale italiano per la produzione di acciaio punta sui più “puliti” e “circolari” forni elettrici, tanto da essere in grado di vendere tecnologia ai cinesi per produrre acciaio riducendo le emissioni.
E come sanno i lettori di Nuova Ecologia il discorso vale nella chimica: se quella di base si fonda sull’utilizzo dei fossili (petrolio) come materia prima, accorciando inevitabilmente la “catena del valore”, delocalizzando e trasferendosi nei Paesi produttori, quella “verde”, a maggior valore aggiunto, sostituisce i fossili con materia prima rinnovabile di origine vegetale.
È miope, se non cieco, chi in questa parte del mondo (e il pensiero inevitabilmente corre a Trump e ai suoi seguaci) pensa di resistere al cambiamento e difendere gli interessi costituiti. Ma sarebbe stolto anche chi, tra di noi, pensasse che data la “convenienza” possiamo lasciar fare alla “mano invisibile” del mercato. Dobbiamo invece “governarla” questa rivoluzione in atto, perché non dobbiamo lasciare “cocchieri disoccupati” (quando la ferrovia sostituì le diligenze) né far fallire intere aziende come la Kodak (quando ai rullini si sostituì il digitale).
P.S. Anche di questo parleremo con numerosi ospiti dal 22 al 24 maggio, ad Alba, nella X edizione di “Circonomìa – Il Festival dell’economia circolare” (www.circonomia.it), organizzato dalla Cooperativa Erica con la collaborazione di Kyoto Club e Legambiente.