Agricoltura, meno aiuti dall’Europa. Ma occhio alla qualità 

Il dibattito che si è acceso sugli esiti dell’ultimo vertice europeo sul bilancio della Comunità  offre l’occasione per una riflessione che vada oltre quella più ovvia sulla “quantità ” e che approfondisca il tema della “qualità ” della spesa pubblica anche a livello europeo. Intendiamoci, è sacrosanto criticare la contrazione del bilancio voluta e ottenuta dalla destra (e dai paesi del nord) che ridurrà  la possibilità  di intervento su assi invece fondamentali per lo sviluppo, quali la ricerca, l’innovazione, la formazione, il riequilibrio delle disuguaglianze. Ma così come macroscopicamente evidente nel nostro Paese, per sprechi e diseconomie, anche a Bruxelles intervenendo sui singoli capitoli di bilancio e razionalizzando le spese si potrebbero ottenere ampi miglioramenti nella qualità  dell’intervento pubblico.

L’esempio più evidente è chiaramente quello della politica agricola che assorbe da sempre circa il 50% dell’intero bilancio comunitario e per la quale si sta discutendo la riforma per il periodo 2014-2020 proprio in queste settimane. In un recente intervento su Repubblica, Carlo Petrini denunciava il pericolo che “la speranza di un’agricoltura europea più attenta all’ambiente e quindi giusta, tanto per chi paga le tasse quanto per chi produce in maniera sostenibile,” avesse subito una  grave frenata per il voto della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo che, a suo parere, minacciava di depotenziare le seppur timide prospettiva di riforma contenute nella proposta originaria della Commissione Europea. E’ difficile dar torto a Petrini quando segnala le storture della vecchia PAC che hanno sostenuto “un sistema produttivo per cui alla fina si paga due volte. Con le sovvenzioni, ma anche poi per aggiustare i suoi danni, dalla salute alla sicurezza dei territori, dalla qualità  di acqua, aria e terreni a quella del cibo”. Si tratterebbe adesso di portare invece a compimento quello che a parole si dice che si vorrebbe fare da anni: valorizzare la funzione “multifunzionale” dell’agricoltura, la sua capacità  di produrre cibo buono, prodotti tipici (specie nel nostro Paese) che sono parte essenziale delle economie e delle stesse identità  dei territori, ma anche quella di “fare paesaggio” e di essere la prima difesa dal dissesto idrogeologico, senza trascurare il suo, potenzialmente grandissimo, ruolo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Come fare? Premiando le buone pratiche agricole, a partire ovviamente dal biologico, e uscendo dalla logica per cui la Pac sino adesso ha premiato le aziende più vaste, e non le pratiche sostenibili, le rotazioni delle colture, le funzioni ecologiche dell’agricoltura. Con quali risorse? E qui si può persino accettare il veto a qualsiasi ipotesi di aumento della spesa complessiva se si sceglie una “qualità ” diversa della stessa. In questo caso piuttosto semplice: se si mettesse un tetto alle sovvenzioni per singole aziende si coglierebbero al contempo due obiettivi: eliminazione di quelle storture, di cui gli 8 milioni di euro l’anno alla Regina Elisabetta per le sue farms sono solo l’esempio più noto, e si potrebbero recuperare risorse preziose per il “secondo pilastro” , quello appunto destinato a sostenere il ruolo multifunzionale della nostra agricoltura, quello del futuro. Se si mettesse un tetto a 100mila euro l’anno si recupererebbero a livello europeo circa 6,5 milardi l’anno sui 40 totali delle sovvenzioni, in Italia 800milioni l’anno , circa il 20% del totale che oggi si godono 300 grandi aziende su oltre 1 milione di agricoltori. Ecco una sfida per i nostri parlamentari a Bruxelles che ne discuteranno nella sessione di metà  marzo, e anche per il nostro prossimo Governo se vorrà  avere un profilo di riformismo radicale anche in Europa.

 

Francesco Ferrante