Energia: il futuro è già presente, ma il passato non vuole passare

Pubblicato su TuttoGreen

Mentre Terna scommette in Uruguay sulle rinnovabili, Eni è la prima compagnia petrolifera a farsi avanti per trivellare l’Artico dopo il via libera di Trump. Una mossa sbagliata, che riduce valore al Cane a sei zampe, e che il governo dovrebbe impedire.

Due notizie recenti, che vengono dall’estero ma che riguardano due nostre grandi aziende, ci raccontano bene il flesso della Storia in cui ci troviamo a vivere nel campo della produzione e distribuzione dell’energia. Un campo tanto rilevante nell’organizzazione della nostra vita che può anche essere preso a paradigma del più grande cambiamento mondiale di questo inizio del millennio.

Prima notizia. Terna ha presentato in progetto da 81 milioni di dollari per realizzare un elettrodotto in Uruguay. E fin qui nulla di strano: è da un po’ che il nostro TSO opera e si espande all’estero. L’aspetto più rilevante della notizia è che l’intero finanziamento dell’operazione è un green loan, perché il nuovo elettrodotto consentirà di incrementare la generazione e la distribuzione di energia da fonti rinnovabili, aumentandone il relativo contributo alla produzione nazionale. Insomma, anche in coerenza con il proprio Piano Strategico, Terna ritiene la “sostenibilità” elemento fondante su cui costruire la crescita dell’azienda. In questo sembra esserci condivisione con la linea scelta dall’Enel, da quando abbandonata l’avventura nucleare in cui voleva trascinare il Paese, cambiato il management, ha scelto finalmente di surfare sull’onda delle innovazioni tecnologiche puntando su rinnovabili, efficienza, digitalizzazione.

Buone notizie quindi che confermano – anche per “campioni nazionali” come quelli citati – che le eccellenze italiane nelle imprese (spesso piccole e medie) sono in grado competere nel mondo puntando su innovazione e sostenibilità (si vedano in merito i dati della Fondazione Symbola e Unioncamere sulla Green Italy).

Ma negli stessi giorni un cui Terna presentava il suo progetto moderno in Uruguay, la nostra più grande multinazionale – l’Eni – sceglieva di essere tra le prime big oil companies ad approfittare della scelta di Trump di annullare il veto obamiano di trivellazione nell’Artico. Il cane a sei zampe perforerà da dicembre sino al 2019 quattro pozzi al largo dell’Alaska in uno degli ecosistemi più delicati al mondo in un’area che comporta oltre agli evidenti rischi ambientali anche elevati problemi di sicurezza.

Una conferma che invece il modello di business di Eni non cambia. Gli Accordi di Parigi sui cambiamenti climatici da una parte e, forse con ancora più forza, l’innovazione tecnologica dall’altra indicano con chiarezza che la strada imboccata é quella della decarbonizzazione. Eni sembra rifiutarla. Si ostina a puntare tutto sulla ricerca di nuovi giacimenti, anche se sembra assai probabile che per rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni, ma anche l’andamento del prezzo del petrolio, quei fossili rimarranno nel sottosuolo. Quando inaugurò Goliath, la megapiattaforma nel Mare del Nord, l’ad dell’Eni dichiarò che quel campo sarebbe stato profittevole con un prezzo del petrolio di 50$ al barile. Un prezzo che ormai da settimane non si riesce a spuntare sul mercato. D’altra parte la dinamica della domanda e dell’offerta è quella che è. Nella parte più sviluppata del mondo i consumi di petrolio sono fermi e destinati al calo, in quella “emergente” (Cina, India) la curva di crescita si é assai rallentata e marcia verso l’appiattimento. Una dinamica che probabilmente si accelererà con l’avanzare dell’elettrico anche nei trasporti. E l’offerta di petrolio – nonostante tutti gli sforzi in senso contrario dell’Opec – non accenna a restringersi come spiegava da anni con lucidità Leonardo Maugeri, recentemente scomparso.

Allora la scelta di Eni non solo sembra irresponsabile sul piano ambientale ma anche assai poco lungimirante dal punto di vista economico e sembra dare ragione alla campagna dei Verdi Europei che recentemente invitavano a disinvestire dall’Eni con questi argomenti: “proprio per via del continuo basso costo del petrolio nell’ultimo biennio, molte compagnie petrolifere hanno ridotto al minimo le loro ricerche di petrolio. Non l’ENI: mentre nel periodo 2008 – 2015 le compagnie petrolifere europee hanno scoperto in media riserve pari allo 0,3 volte la propria produzione, l’ENI ne ha scoperte pari a 2,4 volte! Questa azienda di proprietà statale non solo sta espandendo con rapidità un modello di business che danneggia il clima, ma rischia anche di rovinare i suoi stessi investitori, in quanto il tempo di bruciare e vendere petrolio senza alcun ostacolo scadrà non appena l’Accordo sul clima di Parigi sarà completamente attuato. I dati economici sono già piuttosto negativi: nel 2016 la compagnia ha chiuso con una perdita netta di 1,46 miliardi di euro, nel 2015 la perdita addirittura è stata di 8,77 miliardi di euro. E il prezzo di una singola azione è caduto dai 20 euro nel 2014 ai soli 15 euro odierni – una perdita del 25% in appena 3 anni”.

Il movimento per il disinvestimento è un movimento globale che sta riscuotendo un grande successo, e già adesso più di 700 istituzioni di grandi dimensioni – del valore di circa 5,5 miliardi di dollari – hanno disinvestito dalle fonti fossili. Il punto però forse più rilevante è che Eni, contrariamente alle sue sorelle (Exxon, Shell, Bp…) è appunto una compagnia di Stato: una parte delle sue azioni è in mano al Ministero del Tesoro e il suo management è scelto dal Governo. Il rischio economico che corre l’azienda con queste sue scelte quindi lo fa correre a noi contribuenti, e le sue scelte sono in evidente contraddizione con gli accordi internazionali che firma quello stesso Governo. Una contraddizione che va sanata, per il bene dell’ambiente e per i conti dello Stato. Ma il nostro Governo è in grado di “batter un colpo” e far cambiare strada al suo campione a sei zampe? Lecito dubitarne.

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