I vantaggi dell’innovazione tecnologica

Pubblicato su numero di giugno 2017 della Rivista Formiche

Gli Usa di Trump usciranno unilateralmente dagli Accordi di Parigi sui cambiamenti climatici? E’ praticamente dal giorno della sua elezione che in molti su entrambe le sponde dell’Oceano si pongono questa domanda. Ma forse il quesito giusto è se sia diventato davvero così importante conoscere quella risposta. Può sembrare paradossale ma l’impressione è che le scelte di Trump non saranno molto in grado di invertire le tendenze in atto nel settore energetico e più in generale nei sistemi industriali.

Se ad esempio si parte, come tradizionalmente fanno gli economisti energetici, dall’analisi del prezzo del petrolio, qualcuno può mai sostenere che lo smantellamento del Clean Air Act, voluto da Obama e odiato da Trump e dalle lobby che lo sostengono, avrà un’influenza sul prezzo del barile significativa?

Il prezzo del petrolio è determinato ovviamente dall’andamento della domanda – con un trend di crescita in calo persino nei “paesi di nuova industrializzazione” e una netta riduzione nei Paesi più ricchi – e dell’offerta, che non accenna a ridursi, nonostante gli accordi Opec, a causa della flessibilità dell’industria dell’estrazione di shale che si è sviluppata con Obama. Difficile che il barile risalga come piacerebbe ai fratelli Koch e all’industria fossile amica di Trump.

Se poi prendiamo in considerazione il principe dei fossili, il carbone, la questione risulta ancora più chiara: le scelte di Trump stanno consentendo all’industria domestica Usa di inquinare di più aria e acqua, ma non c’è nessun nuovo investimento in centrali a carbone. Semplicemente perché non convengono più. Il mercato è più forte dell’ideologia fossile.

Non a caso sempre più spesso in giro per il mondo – dal Sud America, all’Africa e all’Asia e fino in Europa – alle aste per nuovi impianti energetici prevalgono le rinnovabili (fotovoltaico ed eolico soprattutto) contro le fossili spuntando prezzi sempre più bassi. E’ l’innovazione tecnologica bellezza!

In Cina solo nei primi tre mesi di quest’anno l’elettricità da fotovoltaico ha avuto un balzo dell’80%. Da molti anni ormai gli investimenti globali in rinnovabili hanno superato quelli in fossili, e ormai da almeno un paio tale andamento lo possiamo osservare anche nei Paesi emergenti. In Europa, sempre più spesso ormai ci sono Paesi in cui per qualche giorno in cui tutta l’energia elettrica prodotta è rinnovabile. Non è più un’eccezione in Danimarca, ma succede anche nei paesi più manifatturieri del nostro continente: in Italia più facilmente in estate grazie al fotovoltaico (di cui abbiamo il record mondiale), in Germania in primavera grazie all’eolico.

Aziende multinazionali come Ikea, Swiss Re, Apple, Bloomberg, British Telecom, Coca Cola, Credit Agricole, Ebay, Facebook, Google, H&M, Hewlett Packard, Microsoft, Nestlé, Nike, Philips, Sky (elenco completo su re100.org) si sono impegnate a essere al 100% rinnovabili,

D’altra parte a Parigi si raggiunse quell’accordo storico sia per la spinta “politica” dell’intesa tra gli Usa di Obama e la Cina ma anche per la pressione fortissima della new economy, unanimemente schierata sul fronte di chi richiedeva impegni importanti sulla riduzione della CO2. Ed era evidente anche un anno dopo a Marrakech alla COP22, che si svolgeva proprio immediatamente dopo l’elezione di Trump, che si aprì con il timore dei negoziatori Onu che saltasse tutto, viste le posizioni del presidente eletto, e si concluse invece con la riaffermazione unanime di tutti i Paesi degli impegni parigini, e anzi con il fatto nuovo e assai rilevante dell’autocandidatura della Cina a utilizzare proprio la leva della lotta ai cambiamenti climatici per sostenere la propria politica estera “espansionista” (specialmente in Africa).

Infine il nucleare non pare proprio abbia avuto una seppur minimo rilancio dopo il 4 novembre scorso e continua invece il suo inesorabile declino.

Insomma le scelte di Trump in campo energetico e in relazione agli accordi di Parigi, potranno avere un effetto nefasto sul piano della salute degli americani e dell’aggressione al loro territorio (con il rilancio degli oleodotti che Obama aveva bloccato), e avranno forse – cosa ancora più grave – un effetto di rallentamento della lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto sugli aiuti economici ai Paesi che avrebbero più bisogno di difendersi dagli effetti del riscaldamento globale (non a caso ogni riferimento alla finanza per il clima è sparito dai documenti conclusivi di G7 e G20 proprio per il veto americano). Ma assai difficilmente potranno influire quelle scelte politiche dettate dall’ideologia , sulle decisioni degli altri Paesi e soprattutto dei manager delle imprese. Il direttore di Greenpeace alla conclusione della Conferenza di Parigi esultò dichiarando “i fossili dalla parte sbagliata della storia”. Così è. E dalla parte giusta non ci torneranno più. Trump o non Trump

€Gli Usa di Trump usciranno unilateralmente dagli Accordi di Parigi sui cambiamenti climatici? E’ praticamente dal giorno della sua elezione che in molti su entrambe le sponde dell’Oceano si pongono questa domanda. Ma forse il quesito giusto è se sia diventato davvero così importante conoscere quella risposta. Può sembrare paradossale ma l’impressione è che le scelte di Trump non saranno molto in grado di invertire le tendenze in atto nel settore energetico e più in generale nei sistemi industriali.

Se ad esempio si parte, come tradizionalmente fanno gli economisti energetici, dall’analisi del prezzo del petrolio, qualcuno può mai sostenere che lo smantellamento del Clean Air Act, voluto da Obama e odiato da Trump e dalle lobby che lo sostengono, avrà un’influenza sul prezzo del barile significativa?

Il prezzo del petrolio è determinato ovviamente dall’andamento della domanda – con un trend di crescita in calo persino nei “paesi di nuova industrializzazione” e una netta riduzione nei Paesi più ricchi – e dell’offerta, che non accenna a ridursi, nonostante gli accordi Opec, a causa della flessibilità dell’industria dell’estrazione di shale che si è sviluppata con Obama. Difficile che il barile risalga come piacerebbe ai fratelli Koch e all’industria fossile amica di Trump.

Se poi prendiamo in considerazione il principe dei fossili, il carbone, la questione risulta ancora più chiara: le scelte di Trump stanno consentendo all’industria domestica Usa di inquinare di più aria e acqua, ma non c’è nessun nuovo investimento in centrali a carbone. Semplicemente perché non convengono più. Il mercato è più forte dell’ideologia fossile.

Non a caso sempre più spesso in giro per il mondo – dal Sud America, all’Africa e all’Asia e fino in Europa – alle aste per nuovi impianti energetici prevalgono le rinnovabili (fotovoltaico ed eolico soprattutto) contro le fossili spuntando prezzi sempre più bassi. E’ l’innovazione tecnologica bellezza!

In Cina solo nei primi tre mesi di quest’anno l’elettricità da fotovoltaico ha avuto un balzo dell’80%. Da molti anni ormai gli investimenti globali in rinnovabili hanno superato quelli in fossili, e ormai da almeno un paio tale andamento lo possiamo osservare anche nei Paesi emergenti. In Europa, sempre più spesso ormai ci sono Paesi in cui per qualche giorno in cui tutta l’energia elettrica prodotta è rinnovabile. Non è più un’eccezione in Danimarca, ma succede anche nei paesi più manifatturieri del nostro continente: in Italia più facilmente in estate grazie al fotovoltaico (di cui abbiamo il record mondiale), in Germania in primavera grazie all’eolico.

Aziende multinazionali come Ikea, Swiss Re, Apple, Bloomberg, British Telecom, Coca Cola, Credit Agricole, Ebay, Facebook, Google, H&M, Hewlett Packard, Microsoft, Nestlé, Nike, Philips, Sky (elenco completo su re100.org) si sono impegnate a essere al 100% rinnovabili,

D’altra parte a Parigi si raggiunse quell’accordo storico sia per la spinta “politica” dell’intesa tra gli Usa di Obama e la Cina ma anche per la pressione fortissima della new economy, unanimemente schierata sul fronte di chi richiedeva impegni importanti sulla riduzione della CO2. Ed era evidente anche un anno dopo a Marrakech alla COP22, che si svolgeva proprio immediatamente dopo l’elezione di Trump, che si aprì con il timore dei negoziatori Onu che saltasse tutto, viste le posizioni del presidente eletto, e si concluse invece con la riaffermazione unanime di tutti i Paesi degli impegni parigini, e anzi con il fatto nuovo e assai rilevante dell’autocandidatura della Cina a utilizzare proprio la leva della lotta ai cambiamenti climatici per sostenere la propria politica estera “espansionista” (specialmente in Africa).

Infine il nucleare non pare proprio abbia avuto una seppur minimo rilancio dopo il 4 novembre scorso e continua invece il suo inesorabile declino.

Insomma le scelte di Trump in campo energetico e in relazione agli accordi di Parigi, potranno avere un effetto nefasto sul piano della salute degli americani e dell’aggressione al loro territorio (con il rilancio degli oleodotti che Obama aveva bloccato), e avranno forse – cosa ancora più grave – un effetto di rallentamento della lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto sugli aiuti economici ai Paesi che avrebbero più bisogno di difendersi dagli effetti del riscaldamento globale (non a caso ogni riferimento alla finanza per il clima è sparito dai documenti conclusivi di G7 e G20 proprio per il veto americano). Ma assai difficilmente potranno influire quelle scelte politiche dettate dall’ideologia , sulle decisioni degli altri Paesi e soprattutto dei manager delle imprese. Il direttore di Greenpeace alla conclusione della Conferenza di Parigi esultò dichiarando “i fossili dalla parte sbagliata della storia”. Così è. E dalla parte giusta non ci torneranno più. Trump o non Trump

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