Renzi e il “bisogno di sinistra”

“Renzi parla del nulla”, ha detto Massimo D’Alema qualche giorno fa. L’ha detto quasi nell’esatto momento in cui a Milano il sindaco di Firenze insieme a Ermete Realacci raccontava la propria idea di “green economy”: non un astratto atto di fede su quanto è bello, buono e giusto preoccuparsi di ambiente, ma una “exit strategy” dalla crisi fondata su scelte molto concrete e molto innovative come privilegiare le piccole opere publiche e la manutenzione del territorio rispetto alle grandi infrastrutture o lavorare perché da qui a pochi decenni l’Italia ricavi dalle fonti rinnovabili il 100% dell’energia di cui ha bisogno.
Le battuta di D’Alema torna utilissima per misurare la distanza siderale tra il discorso publico di Renzi e quello di buona parte del gruppo dirigente del Pd. Non è una questione di anagrafe, ma di impronta culturale: per chi si è formato su un’idea “vetero-novecentesca” della politica e dell’economia, e di quella idea fatica a liberarsi, temi come l’ambiente sono nella migliore delle ipotesi mera “sovrastruttura”, nella peggiore amenità  del tutto effimere. Di queste e di altre “amenità ” si parlerà  questo fine settimana alla Leopolda a Firenze, nell’appuntamento clou della campagna di Renzi per le primarie. E proprio l’imminenza del voto del 25 novembre per scegliere il candidato premier del centrosinistra, offre l’occasione per uno sguardo retrospettivo sul cammino compiuto dai progressisti italiani nell’arco della seconda Repubblica.
Poco meno di vent’anni fa, con la nascita dell’Ulivo, la sinistra italiana stabiliva un primato: tra i grandi Paesi europei, eravamo il primo nel quale i “progressisti” mettevano in discussione se stessi provando a vestire panni più adatti ai problemi e alle esigenze nuove posti dai cambiamenti epocali già  allora in atto (fine della “guerra fredda”, globalizzazione, emergere della questione ambientale…).
La sinistra italiana arrivò prima a questo traguardo per ragioni storiche – l’assenza da noi di un grande partito socialdemocratico – ma anche e molto per circostanze contingenti: cogliendo l’attimo del caos magmatico e creativo seguìto al crollo repentino dei partiti che avevano governato il Paese per cinquant’anni e al cambio di nome, e in parte di ragione sociale, del Pci, l’iniziativa a forte impronta volontaristica messa in campo sotto la guida di Romano Prodi riuscì ad abbattere in breve tempo uno steccato che fino a poco prima pareva a tutti invalicabile; in soli due anni, tra il 1994 e il 1996, le due più grandi famiglie del progressismo italiano, gli ex-comunisti che avevano dato vita al Pds e gli ex-democristiani di sinistra che avevano ricostituito il Partito popolare, si ritrovarono uniti in uno stesso schieramento politico.
Questo esperimento, ripetiamo, poneva la sinistra italiana all’avanguardia di una ricerca che negli ultimi anni ha coinvolto quasi tutti i Paesi europei: spingendo i partiti socialisti a rivedere radicalmente il proprio “alfabeto” riformista, così in particolare nel Regno Unito con il “new labour” di Blair, e vedendo l’affermazione di nuovi soggetti politici – ecologisti, liberaldemocratici – estranei alla tradizione socialdemocratica ma collocati stabilmente nel campo del centrosinistra.
Ognuna di queste esperienze ha avuto caratteri originali. Quasi tutte hanno insistito su alcuni temi comuni: riformare i sistemi di welfare per renderli più equi, economicamente più sostenibili e più utili a sostenere il dinamismo sociale e generazionale; dare maggiore spazio alle problematiche legate ai diritti civili nell’offerta politica progressista; includere l’ambiente nel “pantheon” delle idee-forza su cui fondare programmi, discorso pubblico, politiche.
Negli anni, la transizione verso un riformismo del XXI secolo ha incontrato più di un ostacolo: prima l’attrazione fatale di tanti leader progressisti verso il pensiero unico neoliberista, simboleggiata da quella foto di un G8 di fine anni Novanta nella quale tutti i potenti del mondo erano espressione di partiti di sinistra (per l’Italia c’era D’Alema). Oggi il passaggio arduo di una crisi economica lunghissima e dammatica che da una parte costringe i riformisti a complicate revisioni – per esempio a mediare tra verbo keynesiano e vincoli sempre più rigidi di bilancio – e dall’altra alimenta quasi ovunque populismi di sinistra temibilissimi alla sfida del voto ma inservibili alla sfida del governo.
In Italia, nel frattempo, la ricerca di una via riformista compiutamente contemporanea ha segnato il passo: imprigionata dall’estrema lentezza del ricambio nei gruppi dirigenti del centrosinistra, sfiancata dai lunghi anni nei quali la necessità  di rinnovare analisi e linguaggi del discorso progressista ha ceduto il passo alle ragioni tanto più immediate, e spesso – sul piano dell’evoluzione culturale – regressive, della polemica e della propaganda anti-berlusconiane. L’Ulivo, è vero, da schieramento politico-elettorale si è fatto partito, ma alla vigilia di elezioni che potrebbero riconsegnare al centrosinistra la guida del Paese, il Pd somiglia molto di più alla replica tardiva di quel grande partito socialista che l’Italia non ha mai avuto, che non a ciò che era nato per essere: cioè una forza progressista “post-novecentesca”, nel cui progetto trovino spazio e sintesi tanto i valori classici della sinistra – primo fra tutti l’equità  sociale – quanto i paradigmi di un’idea più larga e moderna di progresso, come il merito individuale, i diritti personali, la sostenibilità  ambientale, l’etica pubblica, l’autonomo protagonismo dei corpi sociali, un welfare fondato sul principio delle pari opportunità  più che su quello delle prestazioni universali.
E’ anche per questa regressione se oggi il Partito democratico sembra incapace non solo di fronteggiare, ma di riconoscere, l’abisso sempre più largo di sfiducia, di disprezzo, di rifiuto degli italiani verso i partiti, verso tutti i partiti. Ci gingilliamo tra apologeti dell’agenda-Monti e laburisti vecchia maniera, tra inseguitori di Casini o di Vendola, ma per conquistare al Pd un futuro che non si fermi alle prossime elezioni serve ben altro: servono atti radicali, persino temerari, di discontinuità  sul piano della visione politico-culturale come su quello della lotta al dilagare di reati, abusi, piccole e grandi arroganze che nella percezione generale e in larga misura nella realtà  ha fatto dei politici una “casta”.
Per noi il merito principale di Matteo Renzi è proprio questo: spostare il campo di gioco rispetto alla vecchia alternativa radicali-riformisti, disegnare – certo: nel modo molto “impressionistico” e talvolta brutale che è il suo marchio inconfondibile – una risposta originale e contemporanea al bisogno di “sinistra” che, esso sì, non è affatto venuto meno. Qui, crediamo, pars destruens e pars construens di Renzi diventano tutt’uno: come ha detto pochi giorni fa Biagio De Giovanni, non esattamene un passante nel mondo della sinistra italiana, “questo gruppo dirigente ha interpretato qualunque svolta come chiave per la propria continuità  ed è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia”. Renzi al momento è la possibilità  più concreta di cominciare a pensare un’altra storia.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante