Ispra: inaccettabile che Prestigiacomo si rifiuti di incontrare i precari

“E’ inaccettabile che il ministro dell’ambiente Prestigiacomo rifiuti d’incontrare i lavoratori precari dell’Ispra mobilitati per difendere il lavoro. Ed è inaccettabile che ad oltre un anno dalla nascita dell’Ispra, che ha accorpato i tre principali enti pubblici di ricerca e di controllo in campo ambientale, e dalla nomina del commissario, l’istituto e chi ci lavora vivano ancora nella più assoluta incertezza sul futuro, senza nemmeno lo straccio di un regolamento”. Lo hanno detto i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, al termine dell’audizione di una delegazione di lavoratori dell’Ispra presso la Commissione Ambiente del Senato, da loro richiesta e che si è svolta alla presenza del presidente della commissione Antonio D’Alì.
“Nel caso dell’Ispra – hanno sottolineato i due parlamentari del Pd – ad essere precari non sono soltanto centinaia di lavoratori che stanno perdendo o rischiano di perdere nelle prossime settimane il lavoro: precario è l’intero istituto, chiamato a svolgere un ruolo essenziale nell’interesse dei cittadini e lasciato invece in uno stato di totale abbandono. I ricercatori dell’Ispra sono un patrimonio di intelligenze e di competenze che andrebbe salvaguardato e valorizzato. L’Italia senza un sistema forte e credibile di ricerca e controllo ambientale sarà  sempre di più un Paese di serie B”.

Occasione Termini Imerese

Nella crisi, le cui conseguenze sociali non sono affatto terminate, la vicenda di Termini Imeese è davvero emblematica. Lo è per molti motivi: perché riguarda la più importante industria italiana, quella indissolubilmente legata, nella realtà  e nel nostro immaginario collettivo, ai destini dell’intero Paese; perché coinvolge migliaia di lavoratori; perché interessa l’area più fragile, il Mezzogiorno. Ma rischia di essere emblematica anche dell’incapacità  di avere lo “sguardo lungo” necessario per uscire dalla crisi in modo stabile.

La domanda da farsi è se è davvero intestardirsi nel trovare il modo di continuare a costruire automobili in quello stabilimento, il modo migliore per rispondere alle preoccupazioni dei lavoratori e delle loro famiglie o se piuttosto bisognerebbe sfruttare questa crisi drammatica per costruire un’ipotesi diversa e più solida. E’ sicuro che si deve difendere con forza la vocazione industriale di Termini e che si devono chiedere garanzie molto più forti alla Fiat di quante l’azienda sino adesso sembra disposta a concedere. Molto meno credibile è chiedere che si aumenti la produzione di automobili nel nostro Paese. Dobbiamo al contrario considerare l’idea che in futuro se ne produrranno sempre meno. E, almeno in questa parte del mondo, si tratta di un futuro immediato. Infatti se prendiamo sul serio il trend di uscita dall’”era del fossile”, e bisogna farlo a meno di non considerare tutte le più significative leadership mondiali – da Obama alla Merkel, da Sarkozy all’intero panorama politico britannico – dei cantastorie, dobbiamo anche considerare il fatto che inevitabilmente si dovrà  marciare oltre quella “civiltà  dell’automobile” che ha segnato la storia del secolo scorso. Sta già  succedendo, e succederà  anche in Italia che vanta l’indegno primato europeo del trasporto delle merci su gomma (il 78%). Certo modificare il modo in cui muoviamo persone e merci costituisce una rivoluzione persino più importante di quella energetica, ma non è solo indispensabile per affrontare i cambiamenti climatici è anche la strada obbligata per liberarci dalla dipendenza dalle importazioni di petrolio.

Ma allora se questo è il futuro che ci attende, non utopia, ma realtà  concreta che certo avrebbe bisogno di “visione” nelle leadership, che senso ha destinare i fondi, i contributi che alla fine verranno fuori nella trattativa tra Fiat e istituzioni (Governo e Regione), a tenere in vita artificialmente una produzione “non conveniente”, rimandandone la morte inevitabile di qualche mese o al più di qualche anno? Non sarebbe meglio prendere sul serio l’idea di utilizzare Termini per un polo delle energie rinnovabili dove si fa ricerca e si costruiscono materialmente gli impianti puntando con forza sull’innovazione tecnologica? Spendere quei soldi non “a fondo perduto” ma per riconvertire quell’industria  e dare un futuro davvero duraturo a quei lavoratori? Non sarebbe questo l’inizio finalmente di un vero Piano Sud che punti a mettere in grado il nostro Mezzogiorno di sfruttare le proprie risorse? Per farlo però abbiamo bisogno di liberarci dal riflesso condizionato per cui di fronte alla crisi l’unica risposta che sappiamo trovare è la difesa dell’esistente, sempre e comunque. Un vizio non solo della destra conservatrice che nulla vuole cambiare, un vizio troppo spesso anche nostro, del centrosinistra che così manca alla sua vocazione riformista. Proviamo a liberarcene, forze politiche e sindacali, proviamo a trovare risposte originali e dense di speranza proprio a partire da Termini Imprese.  Forse così non si sprecherebbe la crisi e si coglierebbe l’occasione per costruire un futuro migliore.

 

FRANCESCO FERRANTE

Privatizzazione dell’acqua: esproprio degli enti locali

Articolo pubblicato sul numero novembre/dicembre del mensile “Aprile”

La privatizzazione dell’acqua, imposta dal Governo con il voto di fiducia alla Camera dei Deputati è una scelta grave e pericolosa per almeno tre motivi.
Lo è sul piano dei principi, perché non ci si può certo accontentare dell’emendamento che il Pd è riuscito a far passare al Senato in cui si garantisce che la proprietà  resti pubblica, dato che la questione sta nel fatto che obbligando i Comuni a passare alla gestione privata si espropriano gli enti locali e i cittadini delle scelte concrete sull’acqua nel loro territorio e quindi il fatto che l’acqua sia un bene comune e non una merce, invece che una questione indiscutibile e il principio ispiratore di una normativa giusta, come dovrebbe essere, diventa una vuota dichiarazione d’intenti che non corrisponde a una realtà  in cui invece l’acqua diventa una qualsiasi commodity.
Ma la decisione è grave anche perché conferma la natura “ideologica”, nel senso negativo del termine di questa maggioranza di destra, che obbedendo ai dettami del neoliberismo non si preoccupa di verificare pragmaticamente i risultati concreti della privatizzazione e della sua supposta maggiore efficienza. Se lo avessero fatto, avrebbero potuto misurare i numerosi fallimenti in Italia e all’estero delle privatizzazioni avviate, clamorosamente confermati dalla recente decisione del Comune di Parigi che ha deciso la “ripubblicizzazione” dell’acqua dall’1 gennaio 2010, avendo appunto verificato che le multinazionali private che gestivano il servizio avevano fallito nel miglioramento dello stesso.
Ed è una scelta pericolosa perché rivela del Governo la natura centralista, e molto poco rispettosa delle autonomie locali, con buona pace della Lega che furbescamente prova a cavalcare nei territori dove governa la protesta contro questa espropriazione di poteri locali, per poi accodarsi al resto della maggioranza e votare disciplinatamente questo obbrobrio. Peraltro non è la prima volta che su questioni che riguardano l’ambiente esce fuori l’anima centralista, e autoritaria, della destra: si pensi alle norme per il rilancio del nucleare che prevedono persino la militarizzazione dei territori dove dovrebbero trovare sede le centrali e il deposito delle scorie.
Cosa fare adesso, a legge approvata? Innanzitutto sono da apprezzare e da sostenere le proteste di numerose Regioni che nell’esproprio delle proprie competenze hanno individuato materia da ricorso alla Corte Costituzionale. E si devono sostenere tutti i Comuni che, magari forti di alcune esperienze virtuose, continueranno la battaglia per l’”acqua pubblica”. Ma a mio avviso la lotta sarà  tanto più efficace quanto più la si depuri di alcuni equivoci che pure sono presenti nel movimento che si è espresso sui giornali a valle dell’approvazione della legge.
Innanzitutto la questione del “prezzo dell’acqua”. Io non credo che sia questo il punto per cui è importante battersi contro la privatizzazione, come si è invece letto nelle scorse settimane e come hanno accreditato tante prese di posizione di politici e associazioni consumeriste. Oggi in Italia l’acqua costa pochissimo, molto meno che in Europa. E questo di per sé non è affatto un dato positivo. Un costo troppo basso è uno dei maggiori incentivi allo spreco di una risorsa che invece è preziosa e finita. D’altronde lo stesso “Contratto mondiale dell’acqua” nella sua piattaforma che prevede la gratuità  per i primi 50 litri di acqua a persona si dice favorevole a meccanismi tariffari che oltre quella soglia ne scoraggino lo spreco.
Ma elemento fondamentale di una rinnovata battaglia sull’acqua deve essere l’onesto riconoscimento dei vizi che la gestione pubblica ha comunque mostrato in questi anni. Vizi che vanno corretti e impediti se si vuole vincere sul serio questa sfida.
Ricordo, quale esempio, solo una vicenda davvero emblematica: quella della diga dell’Ancipa in Sicilia. Intorno a quello scandalo, denunciato per prima da Legambiente, protagonista poi negli anni dei processi giudiziari che hanno dato ragione a quella lotta contro il malaffare, agirono politici corrotti, interessi criminali e mafiosi che sulla costruzione di quell’inutile e dannosa opera lucrarono affari miliardari (si parlava ancora in lire). Quella vergogna avvenne all’ombra della gestione pubblica dell’acqua che quindi, come è d’altronde ovvio, non garantisce di per sé una maggiore “giustizia”, se non è accompagnata da un forte processo di controllo da parte dei cittadini.
E non sono d’altronde colpa della futura eventuale privatizzazione i problemi più gravi della gestione dell’acqua in questo Paese. Non è colpa delle multinazionali se abbiamo il poco invidiabile record europeo di perdite nelle reti acquedottistiche: oltre un terzo dell’acqua si perde grazie a tubi colabrodo. Certo la privatizzazione non offre alcuna garanzia che i nuovi gestori investano nella rete e anzi il pericolo concretissimo è che si privatizzino i profitti e si lasci al pubblico l’onere di manutenzione e rinnovamento della rete, che già  oggi è insufficiente e diverrebbe del tutto impossibile in assenza di risorse. Ma è altrettanto certo che se non si affronta una buona volta questo problema troppo a lungo rimandato anche dai gestori pubblici, spesso luogo di nomine di politici locali privi di ogni competenza, non faremmo nessun passo avanti in una gestione più efficace e giusta della risorsa.
Più in generale il problema della gestione della risorsa idrica è squisitamente ambientale: si dovrebbe finalmente passare dalla “gestione della domanda” alla “pianificazione dell’offerta”, cioè superare l’attuale approccio per cui si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca disperatamente di soddisfarle. Si dovrebbe partire dalla disponibilità  idrica, bacino per bacino, pianificare conseguentemente le attività . Di nuovo, rispetto a questo orientamento la privatizzazione non può offrire alcuna garanzia, anzi certamente aggraverà  il problema, ma le gestioni pubbliche sino adesso sono state largamente insufficienti su questo fronte.
Lavoriamo su innovazioni, anche tecnologiche, in agricoltura che richiedano minor uso di acqua ma soprattutto affrontiamo in maniera radicale “cosa” e “dove” coltivare considerando il criterio del consumo dell’acqua tra le priorità  nell’indirizzare la scelta, incentiviamo il risparmio nell’industria e nel domestico, con le adeguate campagne di informazione ma anche appunto utilizzando la leva tariffaria..
Insomma la mia proposta è quella di mettere tutti i bastoni fra le ruote possibili a questa riforma “privatizzatrice” affrontando al contempo anche i “vizi pubblici” per arrivare all’obbiettivo per cui insieme alla difesa di un sacrosanto diritto, quello di disporre dell’acqua senza essere asserviti alle esigenze di profitto di una qualche multinazionale, si possa sul serio gestire una risorsa così importante in maniera efficiente e giusta.
FRANCESCO FERRANTE

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