Ambiente, fianco scoperto di Bersani

L’uscita di Rutelli e il disagio evidente degli ex-popolari sono visti dai più come il problema principale per il Pd del dopo-primarie. Secondo questa lettura prevalente, pressoché unanime tra i media e condivisa anche da buona parte del gruppo dirigente democratico, il Pd dell’era-Bersani è ben avviato a recuperare almeno un po’ dei consensi evaporati tra le politiche e le europee, ma deve fare attenzione al suo “fianco destro” oggi più scoperto che mai.
Naturalmente il malessere più o meno esplicito di tanti dirigenti nazionali e locali del Pd con una storia cattolico-democratica che temono di sentirsi – e di essere considerati – sempre di più ospiti o comunque ufficiali di complemento in un partito democratico in via di “diessizzazione”, è un fatto incontestabile ed è un problema vero e grande per la leadership di Bersani. Ma non è l’unico problema e forse non è il principale.
Un rischio non meno temibile è che il Pd rinunci ad aprirsi alla rappresentanza di sensibilità , di interessi che sono difficilmente etichettabili secondo le categorie tradizionali del centrosinistra italiano: sensibilità  ed interessi che sfuggono, cioè, alle definizioni di fianco destro o sinistro, cattolico o laico, che oggi faticano terribilmente a trovare nella politica interlocutori attenti, che per questo hanno guardato con simpatia e speranza alla nascita del Pd ma che al Pd non sono affatto acquisiti e non è detto che non possano rivolgersi altrove.
Segmenti significativi di questi “mondi” recano una forte connotazione ambientale: sono le imprese dell’economia verde che investono nel risparmio energetico, nelle fonti rinnovabili, nella gestione sostenibile dei rifiuti, nei nuovi prodotti ecologici; sono migliaia di piccole e medie imprese del “made in Italy” consapevoli che il loro futuro competitivo è saldamente ancorato alla capacità  di investire in qualità , anche e molto in qualità  ambientale; sono tutte le imprese sociali del no-profit che lavorano in ambiti legati alla tutela e alla valorizzazione dell’ambiente; sono quella parte già  ampia e crescente di cittadini per i quali l’attenzione ecologica è tra i criteri che determinano gli stili di vita e le scelte di consumo ed è persino di più: un valore identitario, uno degli elementi costitutivi dell’appartenenza sociale e territoriale.
Questa Italia – che proprio oggi sarà  protagonista di un incontro promosso dalle fondazioni Symbola di Ermete Realacci e Fare Futuro di Gianfranco Fini (che interverrà  all’iniziativa) – finora è stata poco e male rappresenta dalla politica, anche da quella dei partiti progressisti che non ha mai veramente integrato i temi dell’innovazione energetica, di un governo equilibrato del territorio, della modernizzazione ecologica dell’economia tra le sue priorità  di azione e di proposta. Eppure è una Italia irrinunciabile per ogni concreta prospettiva riformista, tanto più in un’epoca come l’attuale nella quale il mondo è alle prese con una sfida inedita e difficilissima – fronteggiare il problema climatico – che trasformerà  i presupposti stessi dell’agire e della convenienza economici.
Di solito nel mondo l’ambiente trova più spazio nel discorso pubblico del centrosinistra. E’ auspicabile che accada così anche in Italia, che sia il Pd ad intestarsi con più convinzione la questione ambientale integrandola in un’idea complessiva del futuro e dello sviluppo che coniughi tra loro sostenibilità  ambientale e qualità  sociale. E’ auspicabile che sia così, ma non è scontato. Ci sono in Europa forze politiche di centrodestra, dai conservatori inglesi ai democristiani tedeschi, che hanno fatto dell’ambiente una loro bandiera, ricavandone generalmente un vantaggio in termini di consenso, e lo stesso rilevante successo di partiti ecologisti come i Grà¼nen in Germania o Europe Ecologie in Francia nasce anche dalla scelta di sottrarsi a una stretta logica “rosso-verde”.
Se vuol essere il Pd a intercettare per primo e con maggiore credibilità  questo movimento di energie e di esperienze imprenditoriali, sociali, culturali, allora bisogna, per dirla semplice, che si dia una mossa. Oppure i fianchi scoperti diventeranno più d’uno.

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Quanti altri morti per avere Dl su dissesto idrogeologico?

“Ieri ennesimo stop del governo a Bertolaso e Prestigiacomo”

“Non è bastata l’ennesima tragedia, la levata di scudi di Bertolaso e il richiamo alla linea della responsabilità  del presidente Napolitano per mandare in porto il decreto legge da un miliardo di euro per la difesa del suolo. In un anno, il 2009, denso di tragedie e morti causate dal profondo dissesto idrogeologico in cui versa  il nostro Paese, il ministro Prestigiacomo incassa l’ennesimo, gravissimo, nulla di fatto in Consiglio dei Ministri. Quanti altri morti ci vorranno prima che il governo Berlusconi si decida a trovare le risorse per un programma serio e urgente di messa in sicurezza del territorio?”. Lo dicono i senatori del Partito democratico Roberto Della Seta e Francesco Ferrante.
“Ieri mattina – proseguono i due senatori ecodem –  dopo tanti tentennamenti, pareva cosa fatta l’approvazione del decreto legge, tanto da spingere il principale giornale economico italiano a parlare di ‘evitata figuraccia e accusa di irresponsabilità ’. Dopo l’alluvione in Piemonte della scorsa primavera – sottolineano i senatori ecodem –  e le recenti tragedie di Messina e Ischia, quest’anno gli italiani hanno pienamente compreso quale sia il rischio permanente che si corre, quale  prezzo sta pagando il nostro Paese per aver devastato il territorio con enormi e incontrollate colate di cemento. Invece – proseguono Della Seta e Ferrante – i cittadini italiani assistono alla distribuzione, da parte del Cipe, di fondi per ogni genere di opere mentre al piano per la difesa del suolo spetta ancora il ruolo della cenerentola. L’Italia non può più aspettare: è necessaria una forte assunzione di responsabilità  e una chiara volontà  politica, destinando alla manutenzione del suolo le necessarie risorse. Senza disperderle in mille rivoli o, peggio, utilizzarle per opere faraoniche dalla dubbia utilità .” – concludono Ferrante e Della Seta.

Giustizia: il “processo breve” la nega ai carcerati, e in prigione si continua a morire

“Ogni anno muoiono nelle carceri mediamente 150 persone per cause che non sono sempre certe, ma che anzi, come nei recenti e noti fatti di cronaca, sollevano serissimi dubbi. Cucchi, Saladino, Bianzino, detenuti in vari istituti del nostro Paese, non sono i primi a morire in situazioni poco chiare in un penitenziario e, se il sistema carcerario non cambia, probabilmente non saranno gli ultimi. Ma col ‘processo breve’ il Governo ha pronta la legge che tra l’altro nega giustizia proprio ai detenuti ”. Lo dice il senatore Francesco Ferrante(Pd), reannunciando un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia.
“Il caso del povero Stefano Cucchi – dice ancora Ferrante – ha acceso i riflettori sulle morti sospette che avvengono tra le mura di un carcere, che secondo il dossier di Ristretti Orizzonti ‘Morire di carcere’, sono dal 2000 ad oggi 1531, di cui un terzo classificate sotto la dicitura ‘cause da accertare’. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria afferma che vi è una discrepanza tra questi dati e quelli in suo possesso, mentre sono inconfutabili le cifre che lo stesso Dap fornisce sulle presenze in carcere: 65.416 persone sono attualmente detenute negli istituti di pena italiani, il maggior sovraffollamento dal dopoguerra ad oggi, un numero che supera di ben 2000 unità  il limite di tollerabilità . Nel frattempo – continua Ferrante – il numero dei detenuti va aumentando e ci si avvicina inesorabilmente a quello che il Dap ritiene il punto di caduta: quota 70mila detenuti. Tutto questo – aggiunge il senatore Pd – in vista del piano carceri più volte annunciato da Alfano. In questo contesto di vera e propria emergenza il Paese assiste al tentativo della maggioranza di varare la legge Gasparri – Quagliariello sul ‘processo breve’ che dovrebbe abbreviare a sei anni complessivi la durata dei processi. Nelle intenzioni della maggioranza, se l’imputato è incensurato e il primo grado supera i due anni, il giudizio decade; se non si sono commessi reati prima, o semplicemente non si è stati colti in flagranza, in due anni dunque si archivia tutto. Tutto ciò con buona pace del diritto alla precedenza che spetterebbe agli imputati già  detenuti, che dividono celle da due con quattro, sei persone o più, e degli agenti penitenziari sottoposti a difficilissime condizioni lavorative perché impegnati con un drammatico soprannumero di detenuti.” – conclude Ferrante.

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