Caldo africano e cortocircuiti (soprattutto) italiani

 

pubblicato su Huffington Post

Rasenta il surreale la dissociazione, meglio la schizofrenia informativa sul tema della crisi climatica. Da una parte toni allarmati, molto e giustificatamente allarmati sul riscaldamento globale in atto, dall’altra spazio abbondante e spesso compiaciuto ai “frenatori”, a chi dalla politica alle rappresentanze sociali – due esempi italiani per tutti, entrambi di nome Carlo: il leader di Azione Calenda e il presidente di Confindustria Bonomi – invita a decelerare nel cammino per “decarbonizzare” le nostre e economie e in generale i nostri consumi energetici azzerando l’utilizzo di combustibili fossili, che per la quasi totalità degli scienziati del clima è l’unica via plausibile per impedire che la crisi climatica, letteralmente, ci divori.

Cominciamo dagli allarmi. Ci stiamo addentrando nell’estate probabilmente più calda da secoli, in Italia e non solo. A Roma il 27 giugno – dunque ad estate appena iniziata – è stata registrata la temperatura di 40,7 gradi centigradi, record assoluto per il mese di giugno nella capitale. Lo stesso giorno a Saldtal, nel nord della Norvegia oltre il circolo polare artico, il termometro ha superato i 31 gradi, anche questo un record. Sei mesi fa, a gennaio nell’emisfero sud, scenario ancora più infuocato in Australia: più di 50 gradi in diverse località nelle regioni occidentali del Paese, pure qui primato assoluto. Come ha detto in una recente intervista Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr, anno dopo anno i mesi di caldo “africano” arrivano sempre un po’ prima e si allargano sempre di più verso latitudini temperate: “Ciò che stiamo osservando – così Pasini – rispetta ciò che i modelli ci avevano predetto”.

In particolare nel nostro Paese l’attuale ondata di calore si inserisce in una condizione di siccità che dura da mesi, con epicentro il bacino del Po. E’ un’emergenza che minaccia di diventare cronica e uno dei principali effetti previsti e temuti del “global warming”: progressivo inaridimento dei climi e dunque dei suoli anche in zone geografiche, come l’Italia, temperate, che a sua volta rischia di produrre contraccolpi devastanti sull’economia agricola. La mappa aggiornata a giugno della siccità in Italia elaborata dal Cnr e basata sui dati delle precipitazioni nell’ultimo anno, mostra abbondanti macchie gialle e arancioni – siccità moderata e severa – in Piemonte, Veneto, Lombardia, Liguria, Umbria e Sicilia, con anche quale sprazzo viola – siccità estrema – in provincia di Perugia e nel nord piemontese. Ulteriore nota surreale, c’è chi commentando la siccità italiana ne ha attribuito la colpa ai fautori dell’acqua pubblica. Affermazione priva di qualunque senso logico. Semmai si deve sottolineare che quest’anno con pochissima pioggia ha reso più vistose arretratezze antiche dei nostri sistemi di gestione delle risorse idriche, a cominciare da una rete acquedottistica colabrodo: arretratezze, però, che con il tema dell’acqua pubblica c’entrano zero e che sono un motivo in più per moltiplicare gli sforzi contro il clima che cambia, non un alibi per frenarli…

Caldo africano fino in Norvegia e Italia a secco da mesi dovrebbero, se vi fosse minima coerenza tra premesse e conseguenze del dibattito pubblico, indurre i vari decisori a un’azione più determinata e rapida nel contrasto alla crisi climatica. Ma spesso non accade, meno che altrove accade in Italia. Tra gli argomenti dei “frenatori” uno dei più utilizzati è che noi italiani e in generale noi europei non siamo il mondo: contribuiamo solo per una quota minoritaria alle emissioni che alimentano il “global warming” e se corriamo verso la decarbonizzazione da soli il nostro impegno non vale a fermare la crisi climatica e al tempo stesso ci indebolisce economicamente nella competizione globale.

E’ vero, l’Europa non è il mondo. Ma la transizione ecologica, la transizione energetica verso il traguardo di zero fossili e 100% rinnovabili, naturalmente se accompagnate da adeguate politiche economiche e sociali, sono per il “vecchio continente” una grande occasione di leadership  tecnologica e industriale. Molti studi autorevoli dimostrano che possono portare molti più posti di lavoro di quanti ne fanno perdere, che collocarsi all’avanguardia della conversione economica verso produzioni e consumi “green” è un eccellente affare in termini competitivi.

Peraltro, Europa e Occidente hanno tuttora la forza – economica, geopolitica, culturale – per attrarre dentro la prospettiva della decarbonizzazione il resto del mondo. Come hanno già fatto nel recente passato. Quando nel 1997 fu stipulato il Protocollo di Kyoto che vide i Paesi europei e pochi altri sottoscrivere impegni vincolanti di riduzione delle proprie emissioni climalteranti, molti osservatori commentarono con scetticismo: “l’Europa da sola non serve”. Poi grazie a quella scelta partì una marcia che in meno di vent’anni ha portato all’Accordo di Parigi del 2015, con l’adesione anche delle grandi economie emergenti dell’Asia – Cina e India in testa – a obiettivi e tempi “certi” di decarbonizzazione.

Ecco, i tempi sono il cuore del problema. Sono la ragione che rende surreale affiancare agli allarmi sulla crisi climatica che avanza, l’appello a rallentare i ritmi della decarbonizzazione. L’Italia è purtroppo un luogo paradigmatico di tale problema, a causa soprattutto del ricorrente cortocircuito tra una delle classi politiche e uno dei sistemi informativi più miopi ed ignoranti, sul tema e con alcune eccezioni, d’Europa.

I tempi sono tutto per la possibilità di fermare la crisi climatica. La quale, è bene ricordarlo sempre, non è una minaccia mortale per “il pianeta” – sopravvissuto a sconvolgimenti climatici molto più catastrofici di quello in corso – ma per noi umani, per il nostro benessere personale, sociale ed economico. Per invertire o almeno arrestare la tendenza al riscaldamento globale abbiamo, così dice la scienza, poco più di 20 anni: se entro metà di questo secolo non azzereremo l’uso di combustibili fossili, sarà varcata quella soglia critica – più 1,5 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale, oggi siamo a oltre un grado di aumento – superata la quale le conseguenze sociali ed economiche della crisi climatica diventeranno catastrofiche e irreversibili.

Questa dissociazione tra messaggi sul clima impazzito e inviti a non esagerare nei tentativi per curarne l’impazzimento è tipicamente ma non esclusivamente italiana. Si vede all’opera in tutta Europa, per esempio, nel dibattito pubblico su come fronteggiare le difficoltà di approvvigionamento energetico prodotte dalla guerra scatenata da Putin in Ucraina. Dalla Russia arriva una parte rilevante del gas e del petrolio consumati in Europa, e per taluni l’aggressione putiniana dovrebbe portarci a riaprire le centrali a carbone (non per qualche mese come sensata risposta di assoluta emergenza, ma in permanenza), a scavare a casa nostra per cercare gas e petrolio, oppure a puntare sul nucleare: cioè ad alimentare le cause della crisi climatica, e nel caso del nucleare a insistere su un’opzione tecnologica ambientalmente problematica ed economicamente fallimentare. La verità è opposta: quanto accade in Ucraina fa della decarbonizzazione e dell’obiettivo del 100% di rinnovabili un imperativo non più soltanto per scongiurare il collasso climatico di Homo sapiens, ma per mettere al sicuro la nostra libertà e indipendenza di europei.

Un motto accompagnò la nascita in Europa dei Comuni, culla della nostra civiltà moderna: “l’aria delle città rende liberi”. Oggi la migliore risposta a Putin, ai Putin di adesso e di domani, è in un motto che risuona con quello: “l’energia del sole e del vento rende liberi”.

 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

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