Da un divieto un’occasione di politica industriale: il caso italiano degli shopper biodegradabili

Capitolo del libro “Bioeconomia – La chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana” di Legambiente e Chimica Verde Bionet (Edizioni Ambiente)

Uno degli argomenti più utilizzati dal movimento ambientalista in questi anni è che gli interventi necessari per affrontare la crisi ambientale, a i suoi vari livelli – locali e planetaria – sono gli stessi che permetterebbero di combattere con più efficacia la crisi sociale e di rilanciare l’economia creando occasioni di lavoro. Certo servirebbero “politiche industriali”. Politiche che sappiano scegliere cosa incentivare – l’innovazione, i settori a più alto contenuto di know how, gli unici in grado di competere nella globalizzazione – e cosa disincentivare, dismettere, rottamare perché ormai strumenti inservibili dal punto di vista economico, e non soltanto perché con un ormai insopportabile impatto ambientale – l’economia fossile.

Vale, l’argomento ambientalista, senz’altro per l’energia – rinnovabili versus fossili – per la quale è evidente il beneficio ambientale, che grazie ai progressi dell’innovazione tecnologica che ha permesso costi di conversione dell’energia del sole (e del vento, e quella proveniente dalle biomasse, ecc) sempre più competitivi, delle prime nei confronti dei secondi. Un settore che laddove è stato intelligentemente incentivato, si pensi alla Germania, ha costruito 300mila posti di lavoro, ma che anche in Italia, nonostante la confusione e le polemiche spesso pretestuose, prima degli stop governativi aveva dimostrato di essere uno dei pochi anticiclici che nella crisi aveva prodotto lavoro (senza aumentare di un euro il debito pubblico).

E vale, con altrettanta forza, nella chimica, nella produzione di materiali. Superare la “gloriosa” stagione della chimica del petrolio non è soltanto indifferibile per potere finalmente risanare e bonificare le tante eredità  devastanti per salute e territorio lasciateci in eredità , ma anche indispensabile se vogliamo continuarla da avere una chimica nel nostro Paese. Anche qui è stata l’innovazione tecnologica che ci permette di utilizzare materie prime alternative al petrolio, vegetali e rinnovabili, a costi sempre più bassi ad offrirci questa opportunità  che sarebbe un delitto non cogliere per tempo.

Le questioni sono due: con che strumenti realizzare le politiche industriali virtuose per stimolare tali innovazioni win win – dal punto di vista ambientale ed economico – , e come battere gli interessi economici ancora potentissimi schierati a difesa del “vecchio”.

Ed è proprio da questo punto di vista che la lunga vicenda che ha portato al divieto degli shopper non biodegradabili in questo Paese può costituire un “modello” replicabile in questo e in altri settori.

La vicenda è stata lunga perché è arrivata a conclusione forse solo il 13 settembre scorso quando si è avuta notizia dell’avvio di un’indagine della magistratura torinese su quei sacchetti che si dichiarano biodegradabili senza esserlo nella realtà . Ci sono voluti 93 (novantatré) mesi fa – a proposito delle lentezze italiane, cui sembra impossibile trovare rimedio – da quando con un emendamento di poche righe alla Finanziaria 2007 avviammo quella che poi é stata chiamata “la rivoluzione dello shopper” (BOX 1). Una rivoluzione che, per una volta, ci pone all’avanguardia in Europa. Su un tema che é quello su cui forse collezioniamo il numero più alto di infrazioni, anche molto costose come quelle sulle discariche: i rifiuti.

In questi anni, oltre al già  richiamato progredire delle rinnovabili per la produzione di energia (oggi metà  dell’energia elettrica prodotta nel nostro paese é rinnovabile e mezzomilione di cittadini ha un tetto fotovoltaico sopra il tetto), solo il cosiddetto “ecobonus” per le ristrutturazioni edilizie – di cui,ancora si rinvia incomprensibilmente la stabilizzazione – ha svolto un’analoga funzione di stimolo di un settore economico gravemente in difficoltà . Chimica ed edilizia sono (stati) due settori fondamentali per lo sviluppo di questo paese, in termini d ricchezza prodotta e di lavoro.

Ma oggi, in qualche maniera parallela, a conferma che Green Economy – la bio economia – non é un settore ma piuttosto un modo diverso di fare economia, sia l’una che l’altra per sopravvivere e avere un futuro devono riconvertirsi: la prima cambiando materia prima – dal fossile petrolio al vegetale rinnovabile – la seconda puntando a ristrutturazioni, riqualificazioni, rigenerazioni urbane e non sul nuovo da costruire e sul consumo di suolo.

Il caso degli shopper è un caso positivo di politica: quando a dicembre 2006 introducemmo la norma per cui sarebbe stato vietata da li a tre anni la commercializzazione di shopper non biodegradabili, gli ambientalisti esultarono così come la parte più innovativa della chimica italiana, in molti altri iniziarono ad attrezzarsi e a prepararsi alle conseguenti azioni lobbistiche perché tanto “una proroga in questo paese non si nega a nessuno”. E in effetti l’entrata in vigore del divieto inizialmente slittò dal 2010 al 2011. Ma la pressione congiunta dei movimenti dei cittadini organizzati in forma associativa (Legambiente innanzitutto che di questa battaglia sui sacchetti di plastica é protagonista dalla fine degli anni ’80) e il rafforzamento dell’industria innovativa che ha dato vita all’associazione di settore Assobioplastiche, da una parte, e la consapevolezza delle lobby “plasticare” di essere in forte minoranza, dall’altra, per una volta fecero il miracolo e dall’1 Gennaio del 2011 non sono più commercializzabili nel nostro Paese gli shopper che non siano biodegradabili.

Il fatto che la riforma/rivoluzione fosse matura fu immediatamente confermato dal modo in cui i cittadini la accolsero positivamente nell’opinione e nei fatti: nei primi ipermercati che anticiparono l’entrata in vigore del divieto la risposta fu immediata e si ebbe una subitanea riduzione del 50% dell’uso dello shopper usa e getta.

Inoltre tutti i sondaggi restituivano un forte sostegno dei cittadini al divieto: un caso unico perché di solito i divieti non sono popolari. Ma evidentemente la disponibilità  di un’alternativa, ecologicamente più sostenibile, e il noto ed evidente impatto ambientale – anche visivo – dei sacchetti di plastica sono stati più forti delle abitudini. La plastica dei sacchetti é quella del’”isola artificiale” nel Pacifico, é quella fonte di inquinamento diffuso presente praticamente ovunque, anche in luoghi che ci si aspetterebbe di trovare incontaminati, è il rifiuto più diffuso nel Mare Nostrum (come dimostrato anche dalle indagini svolte dalla Goletta Verde), killer di tartarughe e mammiferi marini. Insomma un caso in cui il “nemico” degli ambientalisti era davvero indifendibile, persino senza ricorrere all’argomento, comunque fondato, del contributo ai cambiamenti climatici e all’effetto serra dovuto alla produzione degli stessi utilizzando petrolio.

Nonostante ciò, e nonostante che anche Federchimica e Plastic Europe dopo iniziale opposizione avessero fatto “buon viso a cattiva sorte”, perché al loro interno c’è chi sa quale è l’unico possibile futuro della chimica, lobbisti e truffatori non si sono rassegnati e hanno provato a giocare la carta dell’Europa e della “libera circolazione delle merci”, garantita dai trattati europei, contro questa normativa italiana che nel frattempo però veniva studiata quale la più avanzata in tutto il mondo.

Ed è stato il Parlamento Europeo stesso a incaricarsi di respingere quella interpretazione distorta dei trattati, quando poche settimane prima di essere rinnovato, nella primavera del 2014, ha approvato la proposta di nuova direttiva sugli imballaggi in cui esplicitamente si fa salva la possibilità  per gli stati membri di ricorrere ai divieti , oltre che a norme fiscali, per raggiungere l’obiettivo di riduzione del 50 % in tre anni dell’utilizzo degli shopper usa e getta. E per di più in quella stessa proposta si riconosce il valore fondamentale, nell’organizzare un’efficiente raccolta differenziata dell’organico, degli shopper compostabili, anche in questo caso sulla stessa linea della normativa italiana. Non sarà  un caso che quello che per gli altri europei è ancora un obiettivo, noi lo abbiamo già  raggiunto: erano 180mila le tonnellate di shopper di plastica “tradizionale” introdotte nel mercato italiano nel 2010 prima del divieto, sono state 90mila nel 2013.

Insomma una norma assai efficace tanto che anche negli Stati Uniti, ha riscosso l’ interesse in legislatori, ong, e industrie e non a caso da allora si sono osservate iniziative di stampo analogo in parecchi Stati americani, dalla California alle Haway

Intanto però, siccome questo purtroppo resta spesso il Paese dei furbetti e del “fatta la legge, trovato l’inganno”, nel 2011 sono apparsi nei nostri negozi falsi sacchetti biodegradabili che hanno inquinato ambiente e mercato, truffando i consumatori. E quindi si rese necessario un nuovo intervento normativo per specificare che quelli ammessi al commercio erano solo quelli biodegradabili e compostabili secondo la normativa UE (UNI EN 11432) (BOX 2). Ma la farraginosità  del percorso normativo e la scaltrezza truffaldina di qualche operatore ha fatto sì che ancora oggi quasi la metà  degli shopper in commercio siano illegali.

Il 21 agosto scorso però è entrato in vigore il DL 91 (BOX 3) che prevede finalmente l’immediata entrata in vigore delle sanzioni (anche pesanti perché si arriva sino a 100mila euro BOX 4) per chi continua a commercializzare sacchetti illegali e da qui nascono gli atti giudiziari avviati dalla procura di Torino.

Finalmente possiamo dire che si è avviato quel sostegno alla riconversione industriale della chimica italiana che era una delle motivazioni del divieto.

Un cambiamento in atto, quella riconversione, certo difficile e contrastata, che però rinnova i fasti della chimica italiana. Negli anni 60 il boom economico italiano si fondò sull’industria dell’auto – la mitica 500 – e sulla chimica, il cui prodotto simbolo fu senz’altro il moplen del premio nobel Giulio Natta.

Oggi se vogliamo una chimica nuova non possiamo non pensare a quei processi e a quegli impianti di cui si parla in queste pagine : da quello di Crescentino di Mossi&Ghisolfi, il primo di una serie, che già  produce biocarburanti di seconda generazione e alla quale adesso ci si rivolge per dare un futuro industriale, ma pulito, al Sulcis del carbone e dell’Alcoa, a quello di Porto Torres che vede coinvolta Novamont insieme ad ENI nella joint venture Matrica, senza le quali non ci potrebbe essere speranza di mantenimento di posti di lavoro in molti siti industriali ormai obsoleti e antieconomici, a partire dalle tante raffinerie ineluttabilmente destinate ala chiusura, prima ancora da un mercato che si restringe (i consumi che diminuiscono non soltanto a causa della crisi) che dal loro impatto ambientale pure in alcuni casi devastante.

Per una volta su questa strada l’Italia esercita leadership. Lo fa grazie innanzitutto al talento e alla tenacia di ricercatori che ormai un quarto di secolo fa hanno capito che quello era il campo da arare. Lo fa grazie a alcuni imprenditori coraggiosi e lungimiranti che , nonostante difficoltà , impedimenti stanno scommettendo sull’innovazione amica dell’ambiente per realizzare impianti che potranno essere “modello” nel mondo. E lo fa grazie anche a un piccolo divieto, voluto ostinatamente da un’associazione ambientalista, che mette fuorilegge un prodotto di uso più che comune.

Ecco, appunto perche questo è un esempio di buona politica che meriterebbe di essere copiato su vasta scala.

Francesco Ferrante

21.9.2014

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