Dopo la COP23 quale futuro?

Pubblicato su Rinnovabili.it

A qualche giorno dalla conclusione della ventitreesima Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici (COP23 di Bonn) proviamo a trarne qualche conclusione su cosa ci aspetta per il futuro. Infatti piuttosto che discutere tra chi ritiene che in realtà non è stato fatto alcun passo avanti concreto e chi pensa che invece – seppur lentamente – il processo prosegue e la strada tracciata a Parigi verso la decarbonizzazione globale non ha alternative (chi scrive è più della seconda opinione), è forse più utile capire cosa bisogna fare e quali gli ostacoli da superare. Proviamo a ragionare per macroaree del mondo.

Partiamo ovviamente dagli Usa di Trump, l’unico Paese al mondo a essersi ritirato dagli Accordi di Parigi. Nel centro del (fu) impero capitalista sembra essere il mercato a fregarsene delle scelte del Presidente: dal 2010 a oggi oltre la metà delle centrali a carbone di quel Paese hanno chiuso o hanno annunciato imminente chiusura. La California (lo stato più ricco, quello che da solo fa quasi un quarto del Pil del Paese), presente a Bonn con il suo Governatore Jerry Brown, insieme a molti altri Stati e Città (a partire da New York) invece di frenare accelerano con gli impegni di riduzione delle emissioni e per aumentare le rinnovabili.

Certo Trump e i suoi sostenitori “fossili” fanno e faranno di tutto per difendere i loro interessi (per esempio insistendo su grandi opere come l’oleodotto Keystone XL o smantellando le politiche ambientali dell’era Obama) ma sembra piuttosto una battaglia di conservazione destinata al fallimento. I paesi di medio reddito, quelli che si stanno affacciando con prepotenza sullo scenario globale (Cina, India, Brasile, Sudafrica) a Bonn hanno giocato di conserva in sostegno ai Paesi più poveri nella loro richiesta (che ha ottenuto un qualche successo significativo) per una maggiore accuratezza e verificabilità degli impegni finanziari che i Paesi ricchi devono rispettare su adattamento (la difesa dai fenomeni meteorologici estremi, l’innalzamento del livello dei mari, l’avanzare della desertificazione).

La Cina, che è contemporaneamente il più grande emettitore di gas serra e il più importante investitore nelle rinnovabili, poi sembra volere usare le politiche per affrontare i cambiamenti climatici in chiave geopolitica per espandere le sue zone di influenza (soprattutto in Africa) e il suo recente annuncio di investimenti massicci in auto elettriche sembra fatto apposta anche per favorire la sua nascente industria nel settore per competere meglio nella globalizzazione con le “vecchie” industrie dell’auto dell’Occidente imbattibili per loro nei motori tradizionali.

Le questioni più delicate sono invece se guardiamo dentro casa nostra. L’Europa che per decenni ha avuto la leadership nelle trattative internazionali e nelle scelte concrete sembra essersi fermata, paralizzata dalle divisioni interne. E gli impegni di Macron e Merkel sul tema non sembrano sbloccare la sostanziale frenata e afasia europea. Anche l’Italia – seppur con la recente novità positiva dell’annuncio contenuto nella SEN della fuoriuscita dal carbone accelerata al 2025 – negli ultimi tre anni, per scelte politiche miopi e inconcludenti, ha fermato le rinnovabili e le emissioni di anidride sono tornate a crescere.

È proprio da qui che si deve ripartire: occorre un deciso cambio di rotta nelle politiche europee e italiane se vogliamo davvero avere una chance di competere con gli altri.
In tanti avvertiamo che il tempo sta finendo se vogliamo davvero rispettare le indicazioni degli scienziati e non far salire la temperatura globale del pianeta oltre 1,5 gradi. Ma se non ci diamo una mossa rischiamo anche che a pensarci saranno gli altri con conseguenze gravi anche dal punto di vista sociale ed economico.
TAG: accordo di Parigi, cambiamenti climatici, cina, clima, COP 23, Donald Trump, SEN 2030

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