Guerra ed energia: il paradosso dei nostalgici del fossile

pubblicato su repubblica.it

Uno spettro si aggira per l’Europa. Anzi due. Il primo spettro ha la faccia di Vladimir Putin. E’ l’incubo quanto mai reale dell’Ucraina – il Paese più grande d’Europa – devastata da un esercito invasore per ordine di un tiranno, come nel “vecchio continente” non succedeva da tre quarti di secolo. Per fermare questo scempio di diritto e di umanità l’Europa deve usare tutti i mezzi possibili, unico limite invalicabile coinvolgersi direttamente nel conflitto che vorrebbe dire una nuova guerra europea ancora più tragica che nel passato: dunque sanzioni rigorose contro Mosca, sostegno politico e materiale alla resistenza degli ucraini, impegno attivo e incessante sul piano diplomatico perché cessi l’invasione e si arrivi ad un accordo di pace duraturo.

Poi c’è un secondo spettro, meno vistoso ma altrettanto spaventoso. E’ il rischio che la guerra di Putin rallenti nel mondo, e in particolare in Europa, il cammino per fronteggiare la crisi climatica. Se così accadesse, sarebbe il trionfo di un paradosso: un evento che dimostra l’insostenibilità geopolitica dell’attuale modello energetico globale fondato sulle energie fossili e dunque dominato da pochi Paesi che come nel caso della Russia possiedono una quota rilevante delle riserve di gas e di petrolio, e che perciò dovrebbe spingere ad abbreviare la “road-map” verso il 100% di energie pulite e rinnovabili – disponibili senza limiti e dappertutto -, provocherebbe l’opposto risultato allontanando la possibilità di fermare il “global warming” causato dai combustibili fossili e che mette in pericolo il benessere dell’intera umanità.

Che le cose vadano così piacerebbe molto, com’è ovvio, alle grandi industrie fossili, ma in Italia  più che altrove l’idea è accarezzata anche da tanti commentatori più o meno autorevoli e indipendenti. Uno per tutti è Federico Rampini, per il quale l’Europa di fronte alla sfida potenzialmente letale lanciatale da Putin deve farsi “carnivora”, cioè smetterla di coltivare insulse fantasie “erbivore” a cominciare dall’idea di produrre tutta l’energia di cui ha bisogno con il sole e con il vento anziché con il petrolio e con il gas.

Dunque Putin con la sua politica neo-imperiale rappresenta un’insperata “sponda” per quelli che non amano la transizione energetica dall’era fossile all’era rinnovabile. Transizione, è sempre bene sottolinearlo, che per fortuna è pienamente in cammino e che conviene più di tutti proprio a noi europei: nel mondo “fossile” al tramonto siamo larghi importatori dell’energia che ci serve, mentre nel campo delle energie rinnovabili siamo non solo, come tutti, indipendenti e sovrani, ma siamo stati e possiamo tornare ad essere leader tecnologici. A ciò si aggiunga, ancora, che oggi le nuove fonti rinnovabili – sole, vento, geotermia, biometano –  grazie ai progressi nella ricerca e nell’innovazione producono elettricità e calore a un costo più basso delle fonti tradizionali (nucleare compreso). Insomma: è del tutto evidente che se l’Europa avesse già azzerato o minimizzato l’uso di petrolio e gas, Putin sarebbe uno zombie e il caro bollette un non-problema.

La verità è che i “filo-fossili” alla Rampini, e gli interessi cari ai conservatori dello status quo energetico fondato sul gas, sono anti-europei. Non a caso i più strenui difensori del New Green Deal e della necessità di accelerare la transizione ecologica sono Presidente e Vice della Commissione europea, Ursula Von der Leyen e Frans Timmermans. E’ sacrosanto che nell’attuale  emergenza l’Europa per dipendere meno dal gas russo acquisti più gas da altri fornitori attraverso i gasdotti mediterranei e i rigassificatori esistenti (tutte infrastrutture sottoutilizzate, tranne il Tap, a vantaggio fino a ieri dei contratti con i russi più remunerativi per gli importatori ma non necessariamente per imprese e famiglie…). Invece, e persino a prescindere dall’imperativo dettato dalla crisi climatica di azzerare l’uso dei combustibili fossili entro poco più di vent’anni,  sarebbe insensato puntare nel medio e lungo termine sul gas liquefatto americano estratto con il fracking, conveniente solo in questo tempo transitorio di crisi, o su quello proveniente da Paesi geopoliticamente tutt’altro che “stabili”, come sarebbe illusoria l’idea di scommettere sul gas “domestico”. La caduta negli ultimi anni della produzione di gas italiano è avvenuta per ragioni di scarsa convenienza economica e di difficoltà tecniche di estrazione, non per colpa (o merito) degli ambientalisti: è stata una discesa continua, dai 20 miliardi di metri cubi all’anno degli anni ’90 fino ai 3 di oggi, e quando nel 2012 l’allora ministra dell’ambiente Prestigiacomo fissò il limite di 12 miglia dalla costa per i permessi di trivellazione l’Italia era già scesa sotto i 10 miliardi di metri cubi annui.

Dunque si rassegnino i nostalgici dell’energia fossile: il gas in Italia è da decenni protagonista della transizione energetica, protagonista meritato visto che il suo impatto ambientale e climatico è inferiore a quello di petrolio e carbone. Contiamo sul nostro territorio decine di centrali termolettriche a gas, ora la transizione da fare e da fare in fretta – anche contro i Putin di oggi e di domani – è verso il 100% di energie rinnovabili.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

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