QUELLI CHE “IL CORONAVIRUS E’ COLPA DELLO SVILUPPO” E QUELLI CHE “CIAO CIAO GRETA”

pubblicato su huffingtonpost.it

 

Molti che l’hanno sempre detestata ora si compiacciono: “Che fine ha fatto Greta? La ragazzina svedese che insieme al suo ‘movimento’ per mesi ha urlato al mondo che la crisi climatica è il problema numero uno dell’umanità, è spazzata via dalla scena pubblica per effetto di una crisi ‘vera’, quella del coronavirus”.

I negazionisti climatici quasi festeggiano l’epidemia, ci vedono l’occasione per ricacciare sotto traccia l’allarme di scienziati, ambientalisti, ormai di tanti comuni cittadini, per il clima che cambia.

Naturalmente è vero: in questi giorni siamo tutti concentrati più su altro che sul “global warming”. Ci stiamo tutti battendo contro un nemico nell’immediato più insidioso, che ha sconvolto le nostre vite quotidiane e che assorbe buona parte delle nostre energie pratiche e psicologiche. Non possiamo uscire di casa, non possiamo lavorare né incontrare amici e parenti: lo spazio mentale disponibile per preoccupazioni, inquietudini, è quasi interamente occupato.

D’altra parte, anche questo va detto, l’ecologia è agitata da qualcuno come spunto per riflessioni sconcertanti a proposito del coronavirus. Chi si felicita delle nostre città d’arte finalmente liberate dal turismo di massa e restituite alla loro bellezza solitaria e originaria: come se piazza San Marco  o piazza della Signoriadeserte non siano immagini altrettanto raggelanti e “antiecologiche” (l’uomo è fatto per vivere in comunità, e le piazze sono state inventate per essere affollate…) di quelle che fotografano gli eccessi del turismo intensivo. O ancora chi arriva a teorizzare che il virus attuale è figlio della modernità e dello sviluppo:  come se non succeda da sempre che i virus decimano l’umanità, con la differenza che oggi ci sono i respiratori…

Diceva Alexander Langer, un pioniere del pensiero “green”, che la conversione ecologica del nostro modo di vivere, di organizzarci collettivamente, di produrre e consumare, sarà possibile solo quando apparirà ai contemporanei socialmente desiderabile. Ecco: com’è evidente, la condizione di drammatica e forzata rinuncia nella quale viviamo da giorni e vivremo almeno per settimane, è quanto di più lontano dalla possibilità concreta, “socialmente desiderabile”, di costruire un domani “ecologico”, di fermare la crisi climatica, di trasformare l’economia da lineare in circolare, di diffondere stili di vita e di consumo che integrino come fondamento la sostenibilità ambientale.

Eppure di legami ce ne sono tra l’epidemia da coronavirus e l’ecologia. Uno, diretto sebbene ancora ipotetico, nasce dal dubbio – sollevato in studi scientifici – che il contagio corra tanto più veloce in aree particolarmente inquinate, come la provincia cinese dell’Hubei e la Pianura Padana. Un’altra connessione, meno immediata ma molto solida, l’ha brillantemente spiegata Telmo Pievani, filosofo della scienza ed evoluzionista, in un video di pochi minuti disponibile sul sito dell’Università di Padova e che circola da giorni in rete. La distruzione degli ecosistemi, a cominciare dalle grandi foreste, ha favorito nel tempo la trasmissione dei virus – una delle forme primordiali di vita sulla terra – dagli animali all’uomo. Il virus come ogni “vivente” segue una logica evolutiva: il suo imperativo biologico è moltiplicarsi quanto più rapidamente ed estesamente possibile. Impoverire e dissipare gli ecosistemi aumenta la probabilità che i virus compiano salti di specie, e l’abitudine di molti umani (in Cina ma non solo…) di esporre – per esempio nei mercati – animali selvatici sia vivi che morti accresce ulteriormente il rischio che a venire investita dal contagio sia la nostra specie.

Conclude Pievani: la ricerca scientifica, l’igiene, il progresso sociale, la protezione ambientale, sono le armi per sconfiggere i virus. A noi sembra una sintesi efficace.

 

 

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