pubblicato su www.agendadigitale.eu
La Cop30 a Belém non è solo rito. Nonostante il target 1,5 °C sembri ormai fallito, innovazione e costi spingono le rinnovabili oltre i fossili. La Cina guida investimenti e produzione, l’Europa tentenna, gli USA assenti. Le Cop restano necessarie per governance globale, transizione giusta, Green Deal.
Si apre oggi la Cop30 apre a Belém in Brasile, la XXX Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Per la prima volta, i modelli climatici dimostrano che l’obiettivo di 1,5 °C è irraggiungibile, dopo che i governi non sono riusciti a limitare il riscaldamento globale.
Anche questo rischia di essere un altro inutile consesso dell’eco-diplomazia che si dibatte tra ideologia green ed interessi economici concreti legati alle estrazioni e consumo di fossili, che non decide nulla, rappresentando, al suo peggio, l’inazione delle Nazioni Unite. Alla fine, sembra solo un inutile spreco di soldi e di tempo, mentre la temperatura media globale del Pianeta continua a salire, e tanti saluti all’obiettivo di 1,5 gradi C degli accordi di Parigi.
Scommettiamo che saranno questi i toni della maggior parte dei commenti durante lo svolgimento della Cop in Brasile e all’indomani del suo probabile nulla di fatto o “accordo al ribasso”, come è facile prevedere a proposito delle sue conclusioni.
Ma non è, o lo è solo in parte, il modo corretto con cui dobbiamo guardare e analizzare questi appuntamenti. Ecco perché serve invece uno sguardo un po’ più lungo.
A Belém le Nazioni Unite sono tornate nel Paese dove tutto è cominciato. Era infatti il 1992 quando tutti i leader del mondo andarono a Rio de Janeiro al Summit della Terra, dove furono firmate importanti convenzioni tra cui quelle sulla biodiversità, l’Agenda 21 e – forse la più rilevante – sui cambiamenti climatici. Qui nacquero queste conferenze, arrivate oggi alla 30esima edizione.
Era di pochi anni prima (1987) il Rapporto Brundtland (dal cognome della prima ministro norvegese che presiedette la sesura), dal titolo Our Common Future(il nostro futuro comune), in cui, per la prima volta, venne introdotto il concetto di “sviluppo sostenibile”. Sono passati quasi quarant’anni da allora. Saremmo davvero miopi a non vedere la rivoluzione cui stiamo assistendo da allora.
Certo, è vero che le emissioni di gas cliamalteranti sono aumentate, che la temperatura del Pianeta cresce, che oggi i negazionisti della crisi climatica osservano felici la vittoria e le azioni del loro leader Donald Trump che infatti ha ritirato il suo Paese da ogni accordo internazionale in difesa dell’ambiente e negli ultimi mesi ha fatto fallire per esempio quello per la riduzione della plastica e quello per il controllo dell’inquinamento dovuto al traffico marittimo. E che a Belen la delegazione USA non ci sarà proprio.
Ma questa è “cronaca”.
Non possiamo sottovalutare gli effetti immediati e concreti che determina, ma non può ostacolare un processo storico in cui il driver principale è l’innovazione tecnologica.
Dobbiamo ancora una volta scomodare Yamani, lo storico ministro degli esteri
dell’Opec che negli anni 70 del secolo scorso già vaticinava che “come l’età della pietra non finì per l’esaurimento delle pietre, anche quella del petrolio si concluderà per l’innovazione tecnologica che è il vero nemico mortale dell’Opec“. Ecco, ora è successo.
L’innovazione non solo ha permesso di realizzare manufatti (quali la bioplastica compostabile) non ricorrendo al petrolio quale materia prima, e a rendere
sempre più efficiente l’uso delle risorse e il riciclo. Ma soprattutto consente di convertire in energia elettrica le fonti rinnovabili a costi sempre più competitivi, mettendo via via fuori mercato i fossili (per non parlare del nucleare il cui contributo alla produzione di energia elettrica negli ultimi anni nel mondo si è dimezzato e ormai non arriva nemmeno al 10% del totale).
Il trend è inevitabile, non si può fermare e inizia a dimostrare quanto uno dei cavalli di battaglia degli “inazionisti” del clima, quelli che obiettivamente si alleano con i “negazionisti”, è semplicemente insensato.
Infatti, chi vuole fermare il vento con le mani sostiene che gli sforzi europei di ridurre le emissioni di gas climalteranti sarebbero inutili, dato che le emissioni europee contano poco globalmente e che la fame di energia di quei Paesi – che eravamo abituati a chiamare in “via di sviluppo” – continua a far crescere le emissioni globali.
Ma questi “frenatori” si ostinano a non vedere le tendenze.
Nel primo semestre del 2025, per la prima volta, la crescita della produzione di energia dalle rinnovabili è stata superiore alla crescita dei consumi globali (109%).
Inoltre, in Paesi quali la Cina e l’India si è osservata per la prima volta la
riduzione del consumo di carbone.
Da anni ormai gli investimenti globali sulle rinnovabili hanno superato quelli (pur ingenti, dato che trivellare costa sempre di più) sulle fossili. E il maggior produttore di rinnovabili è diventata proprio la Cina, che peraltro utilizza la leva delle terre rare necessarie alla transizione energetica, la produzione di pannelli solari e l’elettrificazione dei trasporti anche per accrescere il suo
potere “geopolitico” nel mondo.
Alla fine dello scorso anno il Paese aveva istallato 887 gigawatt di potenza dei fotovoltaico, quasi il doppio del totale istallato in Europa e Usa. L’Economist ha calcolato che i 22 milioni di tonnellate di acciaio utilizzati per
costruire nuove turbine eoliche e pannelli solari nel 2024 sarebbero stati sufficienti per costruire un Golden Gate Bridge ogni giorno lavorativo di ogni settimana dell’anno.
La Cina così ha prodotto 1826 terawattora di energia eolica e solare nel 2024. Ecco lo sguardo più lungo.
Sono la tecnologia e gli economics i veri driver della transizione. E ci si chiederà a che servono queste mega adunate che nel tempo si sono trasformate da eventi, i cui protagonisti, a volte persino folcloristici, erano le ong, gli ambientalisti, i Paesi del Sud del mondo che sono le prime vittime del riscaldamento globale, a luoghi dove nei corridoi si incontrano più spesso i lobbisti delle fossili che non i delegati ufficiali dei governi.
La risposta è che servono perché non abbiamo alternative possibili e che questi eventi come la Cop30 sono desiderabili per la governance globale. Abbiamo ricordato il ruolo di Rio92 dove tutto ebbe inizio.
Il Protocollo di Kyoto (1997) – oggi spesso bistrattatato – ha avuto il merito straordinario di consentire una svolta nelle politiche industriali dell’Europa che ha consentito all’Unione europea di esercitare una leadership nella transizione (che oggi sta smarrendo proprio per le scelte politiche della sua componenete più conservatrice).
Gli Accordi di Parigi (2015) – che forse prematuramente qualcuno descrisse come “il momento in cu abbiamo messo i fossili dalla parte sbagliata della storia” – sono stati l’evento in cui la diplomazia, grazie all’incontro tra gli Usa, allora guidati da Barack Obama, e la Cina di Xi Jin Ping, ha mostrato senz’altro la parte migliore di sé.
In queste settimane a Belém l’assenza degli Usa trumpisti priva lo schieramento fossile del suo “campione” e con l’Europa che balbetta, paradossalmente si lascerà campo libero alla Cina che utilizzerà in Brasile (la B dei Brics) anche quest’occasione per ampliare la sua influenza.
Ma la Storia non finisce questo mese.
Trump verrà auspicabilmente ricordato come un accidente. Siamo ancora in tempo a cambiare strada e a rimetterci nel percorso innovativo che non solo ci libererà dalla “schiavitù fossile”.
Ma ci consentirà di accompaganare la transizione con politiche che la possano rendere anche “giusta e solidale” come la stessa Unione europea aveva intuito nel 2019 quando lanciò il Green Deal.
L’accordo europeo rappresenta l’unica vera nostra speranza di resistere nella competizione globale e difendere il nostro modello di democrazia e welfare.